il LestEditoriale
IL PROF
(storie di scuola realmente accadute)
Aficionados carissimi,
ricomincia un'altra settimana e, soprattutto, piano piano settembre s'inoltra, l'estate sfuma in dissolvenza e ci ritornano addosso ritmi e orari della maggior parte dell'anno.
Tra una settimana esatta ricomincia la scuola, e di conseguenza io, sottoscritto lestoscrivente, ogni mattina lascerò temporaneamente il lestobunker per andare a sproloquiare in qualche aula a discapito di poveri adolescenti ignari.
Che mica è un anno qualsiasi, sto qua, per il sottoscritto. Trattasi nientepopodimenoche dell'anno fatidico in cui, dopo quasi nove anni di tirocini, specializzazioni, scuole d'ogni ordine e grado, supplenze annuali e graduatorie infernali, alla tenera età di anni 37 entro finalmente di ruolo.
E cambia poco, in realtà. Cioè, cambia la scuola, cambiano gli studenti, i colleghi, cambia soprattutto l'entità dello stipendio. Ma il lavoro, il modo di lavorare, quello no, non cambia mica.
Come ogni settembre da nove anni a questa parte mi ritrovo a scartabellare appunti e libercoli, a scribacchiare qua e là spunti che reputo interessanti da infilare nel programma.
E scartabella che ti scartabella mi risalta fuori un articolo che avevo scritto esattamente due anni fa. Un articolo che mi pare quanto di più adatto ci possa essere alla vigilia dell'inizio di un nuovo anno scolastico.
Ma soprattutto, un articolo che spiega per filo e per segno cosa sia la scuola per me, cosa sia per me il lavoro di insegnante.
E allora, per una volta, lascio stare il Maiale Grasso e tutta la compagnia, lascio stare i resoconti settimanali della vita del blog e lo ripubblico, così com'è, senza cambiare una virgola.
Perché il mio pensiero, ruolo o non ruolo, non è cambiato di una virgola.
Il titolo dell'articolo era "Il Prof. Storie di scuola realmente accadute".
Eccolo a voi:
Quando ho iniziato a lavorare a scuola avevo appena compiuto 28 anni.
In realtà era già diverso tempo che bazzicavo le scuole. A 24 anni
avevo cominciato a lavorare come ‘educatore teatrale’ o ‘animatore’ che
dir si voglia (a seconda della dicitura che i miei datori di lavoro
scrivevano in quei contratti rigorosamente co.co.pro) nelle scuole
d’ogni ordine e grado: materne, elementari, medie e superiori,
pubbliche, parificate e priva
te. Ma era un’altra cosa. Anche se alcuni
miei allievi abituati alle formule di rito mi chiamavano prof (o
‘maestro’ se si trattava di bambini), il lavoro che facevo era
radicalmente diverso da quello del professore. Facevo un laboratorio
teatrale, insegnavo a recitare, allestivo un saggio e facevo debuttare i
ragazzi in scena davanti a un pubblico. Era un’avventura che, loro per
primi, indipendentemente dalle mie qualità o capacità, vivevano come
qualcosa di assolutamente esaltante. L’attività che gli proponevo era, a
priori, una liberazione, una rottura della routine scolastica benedetta
dal cielo. E quasi sempre le lezioni si svolgevano di pomeriggio,
quindi al di fuori delle caselle costrittive dell’orario di scuola. In
più, non era un’attività obbligatoria come le altre materie, non c’era
uno scrutinio, un voto, un esame finale da sostenere. Erano loro a
scegliere di farla, spontaneamente e liberamente.
Fare il
professore sarebbe stato per forza diverso. Nessuna scelta: sarei
arrivato lì e loro avrebbero dovuto accettarmi e sopportarmi, che lo
volessero o no. Che lo volessero o no, si sarebbero dovuti sciroppare le
mie lezioni di italiano, latino e quant’altro, sopportare i miei
giudizi sui loro temi, sopportare i miei voti, sopportare le ore che il
destino gli avrebbe imposto di passare con me.
Eppure insegnare,
fare il professore, era il mio sogno da tanto tempo. Non mi ci sono
trovato, non ho iniziato per caso e non è stata una scelta di ripiego. È
un lavoro che ho cercato, che ho sudato per ottenere, che ho smaniato e
sperato. Non so dire di preciso quando ho capito che mi piaceva davvero
insegnare, che era il lavoro della mia vita. Credo sia stato ai tempi
dell’università, più o meno a metà percorso, quando aiutavo amiche e
amici di qualche anno più giovani di me a superare esami che avevo già
sostenuto. Forse accadde proprio quel giorno torrido di inizio estate
nel 1998, poco prima di partire per un viaggio assurdo che mi avrebbe
portato fin nel deserto del Marocco. Una ragazza di cui ero perdutamente
innamorato mi telefonò disperata e in preda all’ansia: doveva sostenere
uno dei famigerati “esamoni”, quelli vecchio ordinamento che contavano
in programma qualcosa come venti-venticinque libri. Mi chiedeva aiuto.
Mosso più dall’amore che dalla voglia di passare una giornata di sole a
ripassare un programma infinito e complicato, mi precipitai a casa sua.
Iniziammo a ripassare. Lei mi disse quali erano i punti centrali in cui
non riusciva a capirci niente. Provai a spiegarglieli con le stesse
parole che conoscevo, con le stesse parole con cui avevo studiato quella
roba due anni prima, con le stesse parole che avevo usato per ripeterle
al professore il giorno del mio esame. Niente, non capiva. Non capiva
proprio. Rispiegai, una, due, tre volte. Senza risultati. Cominciavo
seriamente a innervosirmi. Come era possibile? Perché non capiva? Eppure
quella roba l’aveva studiata, glie l’avevo ripetuta dieci volte, lei
non era una stupida. E io non so davvero come, ma improvvisamente capii.
Capii cosa volesse dire insegnare e perché mi piaceva così tanto. Capii
che insegnare non voleva dire ripetere a una, dieci, venti, trenta
persone delle nozioni nel modo e con le parole che io conoscevo, con le
parole, gli schemi e le strutture che io sapevo. Capii che insegnare
voleva dire esattamente il contrario. Capii che insegnare per prima cosa
voleva dire essere lo studente dei tuoi studenti, nel senso che prima
di tutto occorre capire chi hai di fronte, imparare il loro modo di
pensare, di sentire, di vivere. E poi cercare il modo migliore per
spiegargli le cose, che non è quasi mai il tuo modo, ma un altro,
completamente diverso, che devi inventare, creare, modellare a seconda
delle persone che hai davanti. Solo così le materie che insegni si
accendono, diventano vive, generano interesse, entusiasmo, comprensione,
stimoli continui. Così feci quel giorno. E quella ragazza capì, e
superò brillantemente l’esame. E io provai una soddisfazione che non ho
mai scordato. Credo davvero che quello fu il giorno in cui capii quale
sarebbe stato il mio lavoro del futuro. Ma credo ugualmente che l’idea, e
la voglia, di fare il professore sia ancora più antica, risalga
addirittura ad anni indietro.
Università esclusa, dove ho macinato
esami e voti altissimi come un carro armato, sono stato un pessimo
studente. Alle medie e al liceo ero uno di quegli studenti discontinui e
inclassificabili, insofferenti e casinisti. Potevo prendere 9 o 4
nell’arco di un giorno, a seconda di come mi girava. Facevo e studiavo
solo le cose che mi piacevano e che mi entusiasmavano.Le altre, mi
rifiutavo categoricamente. Poi ero furbo, perciò, quando le cose si
mettevano male mi sottoponevo a pomeriggi devastanti di autotortura per
recuperare i brutti voti. E per fortuna, ce l’ho sempre fatta. Credo che
anche questo mio essere ‘studente schizofrenico’ sia stato determinante
nella mia futura scelta d’insegnare. Perché non è che studiassi le cose
che mi piacevano, ma le cose che mi facevano piacere. Mi spiego meglio.
Oggi sono un professore di lettere. E la mia passione per la poesia, la
scrittura, la letteratura, l’arte, è antichissima. Credo d’esserci
nato. Non mi ricordo d’aver mai passato un giorno, negli ultimi
trent’anni di vita, senza un libro in mano, senza aver scritto almeno un
paio di righe. Ho sempre letto e scritto come un ossesso,
incessantemente. Eppure anche in italiano e nelle materie che oggi
insegno ho avuto i miei problemi. Perché più che la materia era
determinante il professore. Mi spiego. Nel periodo delle medie leggevo
qualcosa come quattro, cinque romanzi al mese. Eppure alla mia
professoressa di lettere non importava niente. Avrei avuto miliardi di
cose da dirle, miliardi di collegamenti, intuizioni, ricerche da
proporre. Ma a lei interessavano le tabelle cronologiche delle dinastie
carolingie e merovingie, a lei interessava che noi ripetessimo la vita
del Manzoni con le sue stesse identiche parole, che commentassimo “I
Promessi Sposi” con il suo stesso identico punto di vista. Come potevo
studiare con passione? Come poteva interessarmi quella noia mortale?
Come potevo trovare appassionante quel ripetere ossessivo mnemonico e
nozionistico? E poi i temi. Adoravo scrivere, ma non c’era spazio per il
nostro libero pensiero, potevo scrivere solo quello che la
professoressa voleva scrivessi, quelle parole, quei pensieri. Non credo
di aver mai preso più di un 6 striminzito. Anche il primo anno di liceo
fu abbastanza simile. A differenza delle medie, studiai molto
quell’anno, ma non certo per passione o per entusiasmo. Studiai per
terrore, quel terrore incredibile che riesce a incutere a chiunque
l’ambiente cupo e severo del liceo classico (quasi tutti i licei
classici sono situati in ex conventi medievali, e sicuramente qualche
aula era una vecchia stanza di tortura). In quinta ginnasio invece la
mia vita cambiò. Mi ritrovai in sorte un professore di lettere che mi
fece capire praticamente tutto. Un professore meraviglioso che
s’interessava prima di tutto a noi, che non ci considerava dei numeri,
che non era schiavo di voti e cifre, che ci invitava a tirare fuori i
nostri pensieri e le nostre passioni. Posso dire senza esagerazioni che
se non l’avessi incontrato la mia vita sarebbe senz’altro stata diversa.
Se non l’avessi incontrato, probabilmente, la scuola sarebbe riuscita a
uccidere per sempre le mie naturali passioni, la scrittura, la lettura,
la poesia. Quell’anno meraviglioso che passai con lui mi fece capire il
segreto: il mestiere del professore non è quello di dispensare il
proprio sapere, ma quello di tirare fuori il meglio che abita nell’animo
dei suoi studenti. E forse fu proprio durante quella indimenticabile
quinta ginnasio che, pur se inconsapevolmente, decisi che da grande
avrei insegnato anch’io.
Così a 28 anni appena compiuti iniziai a
insegnare. Vista la situazione della scuola italiana, questo è un lavoro
che inizia senza preavviso, improvvisamente, da un giorno all’altro.
Prendi un’abilitazione, ti iscrivi alle graduatorie e poi aspetti,
aspetti e aspetti. E proprio nel momento in cui proprio non ci pensi,
una scuola ti chiama per offrirti un incarico immediato, sul momento. A
me toccò l’incarico peggiore che può capitare a un professore
esordiente: una sostituzione in corsa. Presi servizio il giorno 10
gennaio del 2005, alle otto e trenta del mattino. La classe era una
terza, il numero degli alunni 27, la materia italiano. Ereditavo
registri, voti e valutazioni di un’insegnante esperta e navigata che
aveva appena ottenuto trasferimento in un’altra città. Un incubo. Dopo
mesi e anni che sognavo e aspettavo questo lavoro, di colpo ero nel
panico più assoluto. Abituati a una prof esperta, avrebbero senz’altro
notato la mia inesperienza. Avrebbero fatto paragoni, l’avrebbero
rimpianta, non sarei stato capace di fare un bel niente. Inoltre li
avrei conosciuti nel momento peggiore: devastati da venti giorni di
vacanze di natale, svogliati e per niente disponibili.
Ricordo che
entrai in classe con le gambe che mi tremavano. C’era un brusio
incessante, si stavano raccontando le vacanze, ridevano, scherzavano, si
provocavano. Eccomi qua, avrei dovuto dire, sono lo stronzo che
sostituirà la vostra amata prof, lo stronzo chiamato dal provveditore a
interrompere questo vostro splendido momento conviviale. Non mi
ricordavo nemmeno se dire buongiorno o buonasera. Non mi ricordavo
nemmeno cosa fosse l’appello. Li salutai con la voce rotta in gola, calò
un silenzio improvviso e insostenibile e io mi spaventai ancora di più.
Dissi alcune cose vagamente insensate per cinque minuti, giocherellando
ossessivamente con la penna per nascondere il mio imbarazzo. Volevo
morire. Così non andava. Non andava proprio. Presi fiato e restai
qualche minuto in silenzio, con i miei 27 alunni che si guardavano e mi
guardavano spaesati e interrogativi. In quella pausa riaffiorarono come
per magia nella mia testa immagini e sensazioni. Immagini e sensazioni
di quella quinta ginnasio, immagini e sensazioni degli occhi dei miei
compagni d’università mentre gli spiegavo gli appunti per gli esami,
immagini e sensazioni degli studenti che avevo avuto a ripetizione. E
capii che ero finalmente un professore e che non dovevo far altro che
mettere in pratica le cose in cui avevo sempre creduto. Non dovevo far
altro che guardarli negli occhi e partire da loro, dai miei splendidi 27
primi studenti. E uno per uno iniziai a chiedergli chi fossero, da dove
venissero, che passioni avessero. Quando suonò la campanella nemmeno mi
ero roso conto che fosse passata un’ora.
Quello fu un anno davvero magnifico. Indimenticabile.
Oggi,
quasi sette anni dopo, ogni primo giorno di scuola, prima di mettere
piede in una nuova classe, continuo ad avvertire quella vaga sensazione
di tremore alle gambe. Non è terrore, ma voglia di far bene, voglia di
essere con loro e non contro di loro. E oggi, quasi sette anni dopo,
continuo ancora a fare la stessa cosa: parto da loro, da chi sono, cosa
vogliono e cosa sognano. Parto da quel meraviglioso e infinito pozzo di
luce, sensibilità e sorprese che sono i miei studenti, nuovi e vecchi,
tutti quelli che ho la sfacciata fortuna di ricevere in dono dalla vita.
Alla prossima,
IL LESTO
Per contattarci potete scriverci a:
lestiniriccardo@gmail.com
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