lunedì 13 ottobre 2014

il lesteditoriale. PROBLEMI TECNICI. CI SCUSIAMO PER L'INCONVENIENTE


il lesteditoriale. PROBLEMI TECNICI – CI SCUSIAMO PER L'INCONVENIENTE
Aficionados,
oggi il lesteditoriale si compone di poche, pochissime righe.
Purtroppo, il blog da sabato pomeriggio ha insipiegabili problemi tecnici che non riusciamo a risolvere.

Ve li elenchiamo, nella speranza che qualcuno di voi possa aiutarci a risolverli:
1.
ABBIAMO DIFFICOLTA' DI PUBBLICAZIONE, nel senso che i post, una volta caricati, impiegano un tempo infiniti a essere effettivamente pubblicati. A volte blogger ci comunica l'avvenuta pubblicazione, ma poi non risultano pubblicati, e ci tocca ricominciare la procedura daccapo.
2.
E' SPARITO DALL'ELENCO “POST PIU' POPOLARI” il post di luglio San Matteo Renzi da Rignano, nonostante secondo le statistiche di visualizzazione risulti a tutti gli effetti il sesto di sempre.
3.
DAGLI SMARTPHONE, sempre da sabato, ci sono state segnalate anomalie e problematiche varie di visualizzazione.
ABBIAMO SEGNALATO AL SERVER TUTTE QUESTE PROBLEMATICHE, ma ANCORA NON ABBIAMO RICEVUTO RISPOSTA.

SPERANDO DI RIUSCIRE A PUBBLICARE DOMANI E SPERANDO SOPRATTUTTO DI RISOLVERE TUTTI I PROBLEMI,

CI SCUSIAMO PER L'INCONVENIENTE E VI SALUTIAMO CALOROSAMENTE,

il lesto

domenica 12 ottobre 2014

IL GIOVEDI UNIVERSITARIO DELLO STUDENTE FUORISEDE

Diario della domenica
(lo studente universitario)

IL GIOVEDI UNIVERSITARIO DELLO STUDENTE FUORISEDE  

 
Più che confusa, ho la mente stronza....perché mi tornano in mente di continuo cose stronze, dettagli improvvisi, episodi incomprensibili...
Tipo quella volta, era l'inverno del 1998, che di colpo ci mettemmo tutti ad ascoltare un gruppo francese, e ci riempimmo la casa di cd, perché si diceva fossero i migliori di tutti, i migliori di sempre.... ma chi erano? che musica facevano? e perché dopo pochi mesi sono spariti? non lo so, non mi ricordo....

Mi ricordo però che poco dopo, era già primavera, vennero a suonare in Italia, a Firenze, e fummo tutti obbligati ad andare al concerto...
E ovviamente suonavano di GIOVEDI, nel famigerato GIOVEDI UNIVERSITARIO, che non ho mai capito perché ci fosse il GIOVEDI UNIVERSITARIO e non, che so, il VENERDI UNIVERSITARIO, e ad ogni modo di GIOVEDI eravamo tutti costretti ad uscire, noi fuorisede, i fuorisede fighetti in discoteca e noi fuorisede alternativi nei locali alternativi dove, appunto, suonavano gruppi come questo qua francese...
  
E quella sera c'era un gran casino e la birra faceva schifo...s'era rotto lo spinatore, dicevano...e come tutte le sere, da settimane, spuntava sempre fuori S., la fricchettoncella che faceva Storia del Cinema e che mi telefonava di continuo, e quella sera aveva la gonna di velluto ed era meno fricchettoncella ma sempre carina carina e io pensai sì, ora basta telefonate e ammiccamenti, stasera la riaccompagno a casa e poi....e a metà concerto l'amico S.R. litigò furiosamente con l'ex fidanzata E.P. e mi disse basta me ne vado e io lo seguii fino alla sua Renault 5 per convincerlo a rimanere, ma lui montò in macchina e col motore già acceso disse no davvero, quella stronza mi ha rovinato la vita, e alla fine mi fece vedere una scatola di antibiotico Zimox che prendeva per il mal di denti....e se ne andò....e una volta tornato dentro, al cesso, becco la cara amica L.T., che amavo in segreto da un anno, che mi butta le braccia al collo e mi schiocca dal nulla un bacio a stampo....e resto stordito fino alla fine del concerto, e perdo tutti e non ritrovo più nessuno e alla fine torno a casa a piedi in compagnia di G.B., 1,90 per 120 chili, che usciva con noi dopo aver mollato il Conservatorio e Comunione e Liberazione e che da mesi si era dato all'alcolismo più disperato...
Nell'ordine mi chiedo: G.B., che dall'estate in poi tutti perdemmo di vista, si è mai più ripreso? l'amico S.R. che cazzo di fine ha fatto, che non sta nemmeno su Facebook? e lo Zimox che cazzo c'entrava? e la cara amica L.T., perché mi diede quel bacio e poi più nulla? avrebbe senso, oggi, quindici anni dopo, scriverle su fb e chiederle spiegazioni? e perché la fricchettoncella S. non mi ha più chiamato, io non l'ho più chiamata e poi, soprattutto, non s'è più vista nemmeno all'università? e infine, cosa più importante, perché NESSUNO ha avuto mai il coraggio di dire che quel gruppo francese faceva letteralmente cagare????

sabato 11 ottobre 2014

IL TEATRINO DELLA DOGANA

Atlantide
(mondi sommersi)

IL TEATRINO DELLA DOGANA


A Firenze, nel bel mezzo del quartiere di Baldracca, accanto all'osteria omonima (se vuoi saperne di più sulla storia di questo quartiere, clicca QUI), sorgeva un teatro attivo almeno dai primi del cinquecento, ufficialmente chiamato TEATRO DELLA DOGANA, ma che nei documenti viene citato anche con molti altri nomi, come ad esempio “teatrino di Baldracca”, “stanzone delle commedie”, “teatro degli zanni”.
Prima di qualunque altra cosa, cerchiamo di rispondere a queste tre domande:
perché un teatro proprio lì, nel bel mezzo del quartiere più malfamato della Firenze dell'epoca?
cosa significano tutti i nomi con cui compare nei documenti?
perché, nel 1546, quando Cosimo de' Medici ordinò lo smantellamento del quartiere per lasciare posto ai futuri Uffizi, risparmiò soltanto il teatro, che rimase infatti attivo fino al 1600?

Alla prima domanda rispondiamo dicendo che non poteva eere altrimenti. Nel senso, un teatro, all'epoca, XVI secolo, non poteva che trovarsi in quartieri malfamati, a Firenze come nel resto d'Europa. E diciamo pure, per la precisione, che non si trattava di un vero e proprio teatro, quanto piuttosto di un luogo adibito alla rappresentazione di spettacoli.
Cerchiamo di essere più chiari. All'epoca, i teatri veri e propri non esistevano più, nel senso che dopo il crollo dell'Impero Romano, con l'inizio del medioevo, erano stati letteralmente smantellati, in quanti ritenuti dalla chiesa cristiana strumenti demoniaci e peccaminosi. Le stesse professioni teatrali, quella dell'attore in primis, era stata soppressa, messa fuorilegge.
Con la fine del medioevo e l'avvento dell'età moderna, tra umanesimo e rinascimento, con la generale riscoperta della cultura classica e del laicismo, ritornò prepotentemente l'interesse per il teatro. Si ricominciò ad allestire spettacoli, specie all'interno delle corti. Ma non solo. Tornarono i professionisti dello spettacolo e di conseguenza tornarono, come in epoca greco-romana, gli spettacoli pubblici a pagamento.
Non essendoci però più teatri veri e propri, le varie municipalità e le varie signorie, misero a disposizione delle stanze, che poi i comici trasformavano in luoghi teatrali.
E la collocazione urbanistica ideale per questi luoghi, erano appunto i quartieri di confine, quelli più loschi e malfamati appunto.
Il perché è presto detto: uno, il teatro era ancora un'attività border line, tra legalità e illegalità; due, il teatro era considerato dalle autorità un luogo di raccolta di tutti gli strati sociali della popolazione, e perciò uno straordinario sistema di controllo.


Passiamo ai nomi del nostro teatro fiorentino.
Perché Teatrino della Dogana? Proprio perché l'edificio, secondo quanto appena detto, coincideva anche con l'ufficio della Dogana, dove la magistratura registrava e controllava i nuovi arrivati in città. La politica medicea fece così coincidere anche fisicamente le due attività di controllo.
Stanzone delle Commedie? Abbiamo già risposto: non si trattava di un teatro vero e proprio ma, appunto, di uno stanzone adibito a luogo teatrale.
Teatro degli zanni? Nel XVI secolo, commedia degli zanni significava commedia dell'arte, vale a dire spettacolo fatto da professionisti. Quindi la dicitura stava a significare che lì dentro andavano in scena spettacoli a pagamento, eseguiti da attori professionisti.

Alla terza domanda infine, abbiamo già risposto. Pur volendo “eliminare” il quartiere malfamato dal centro della città di Firenze, Cosimo de' Medici pensò bene di non rinunciare ad avere a due passi da Palazzo Vecchio il principale strumento di controllo dei flussi della popolazione.

Ma dov'era esattamente questo teatrino? Com'era fatto?
Sono domande cui purtroppo non possiamo rispondere.
Sappiamo che il quartiere di Baldracca sorgeva là dove oggi si trovano gli Uffizi, il cui cuore pulsante stava nell'ala est dell'attuale museo, lungo via dei Castellani. Ma il luogo esatto del nostro teatrino no, non lo conosciamo.
Non possediamo nemmeno una mappa, un disegno che ce lo mostri nel dettaglio.
Possiamo solo immaginarlo, sulla base di alcune sommarie e frettolose descrizioni fatte dai cronisti del tempo.

L'interno era disadorno, con un palcoscenico elementare, leggermente rialzato rispetto al resto, una loggia e un ordine di piccoli palchi schermati da grate.
Questa schermatura dei palchi pare sia stata opera del Buontalenti, su commissione diretta della famiglia medicea, che voleva assistere alle recite, ma in incognito, senza farsi riconoscere dal popolo, che stava in piedi, oppure seduto su lunghe panche di legno, nello spazio corrispondente alle odierne platee.
Questo sistema di schermatura dei palchi, e di occultamento degli “spettatori regali”, fu il modello che il Vasari adottò per la costuzione del suo celebre corridoio, che permise appunto ai Medici di raggiungere, non visti, la chiesa di Santa Felicita.
Altro non sappiamo. Se non che, tra il 1550 e il 1600, vi recitarono i più grandi attori e le più grandi compagnie del tempo.
Compresa la leggendaria compagnia dei Gelosi, capeggiata dalla più grande attrice della storia della Commedia dell'Arte, tale Isabella Andreini che, nel 1589, a Firenze, nel nostro teatrino, recitò la celebre scena della “pazzia”, nel corso della quale, dovendo appunto interpretare il ruolo di una donna impazzita per amore, si strappò le vesti mostrando a un pubblico esterrefatto il seno nudo.

La cosa turbò ed entusiasmò il pubblico al punto tale che i Medici chiamarono l'attrice e la sua compagnia a recitare a corte. Non per sentito dire. Anche loro, i Medici, avevano assistito a quella recita nel teatrino della Dogana. Ovviamente non visti, dietro le grate del Buontalenti.
Venendo a Firenze, passando per gli Uffizi, purtroppo non potrete vedere niente di tutto ciò.
Però pensateci, sognatelo.
In fondo, lungo quelle strade, si è fatta la storia del teatro.

Nelle puntate precedenti di ATLANTIDE:

venerdì 10 ottobre 2014

I SEGRETI DI JIM: IL PRIMO MORRISON (seconda puntata)

il lesto racconta... 

I SEGRETI DI JIM
(tutta la verità su Jim Morrison) 

Per leggere le puntate precedenti:
Prima puntata

SECONDA PUNTATA

IL PRIMO MORRISON  


Partire dai testi quindi, e dal particolare contesto in cui nacquero e si consacrarono, per comprendere appieno Morrison.

La breve vita del Re Lucertola fu un continuo e frenetico passaggio da una situazione all’altra, un’incessante mutazione di pelle, una quantità continua di attività parallele, di nuovi progetti. Unica costante di tutta la sua vita, dall’adolescenza alla morte prematura, fu la scrittura. Per questo, approcciandoci in qualsiasi modo a Jim Morrison, occorre premettere questa necessaria considerazione: che il frontman dei Doors fu, prima di tutto, uno scrittore.
I testi con cui contribuì a rendere immortali le canzoni dei Doors sono, senza dubbio, letteratura. Pur non essendo separabili dalla musica, pur non essendo (se non in casi particolari) poesie trasformate in musica, pur essendo nate nella testa dell’autore come canzoni, esse hanno una complessità, una levatura, un intricato filo di rimandi e suggestioni che non le rende paragonabili a nessun altro prodotto del rock anglosassone (fatta eccezione, ovviamente, per Bob Dylan e per il primo Lou Reed).
Morrison era nato poeta, sin da giovanissimo riempiva quaderni di versi ispirandosi, come lui stesso avrebbe ricordato, ai poeti beat che più amava: Ginsberg, Corso, Ferlinghetti. Di loro imitò lo stile, le ossessioni, le atmosfere. Poi, un giorno, decise di dare tutti quegli scarabocchi liceali alle fiamme. Era necessario liberarsene per elaborare uno stile poetico proprio. Cominciò così a scrivere componimenti del tutto originali, iniziando a dare forma a quelli che sarebbero diventati, nel corso degli anni, i suoi registri più conosciuti e riconoscibili. Subì poi l’irresistibile fascino del cinema e si iscrisse alla facoltà di cinematografia dell’UCLA, coltivando il sogno di diventare un regista alla Godard. Ancora all’inizio del 1965, la musica non era lontanamente nei progetti dell’allora ventunenne James Douglas Morrison.
Cosa successe allora? Come andò che un giovane poeta beat esordiente, aspirante regista, diventasse la rockstar più famosa degli Stati Uniti d’America? Per comprendere questo passaggio fondamentale occorre prima di tutto capire cos’erano gli Stati Uniti, e soprattutto cos’erano la California e Los Angeles in quel decisivo e irripetibile 1965. La costa Pacifica ribolliva di ribellione, la generazione che non aveva conosciuto la guerra era ansiosa di lasciarsi alle spalle tutti i più obsoleti codici etici e morali dei propri padri. I beat, sin dagli anni ’50, nell’America cupa del maccartismo, avevano stuzzicato le coscienze più sensibili propagandando rivolta, libertà, pacifismo, emancipazione sessuale. Tutte cose che, nel pieno degli anni ’60, erano ormai pronte ad essere recepite su larga scala. La tragedia del Vietnam era prossima a esplodere in tutte le sue tinte più cruente, la rivoluzione del ’68 era dietro l’angolo: Los Angeles si accingeva a diventare la capitale mondiale della contestazione. Beat, bohèmiens e hyppies si erano pacificamente impadroniti della spiaggia di Venice, a Los Angeles.
Morrison all’epoca viveva sul tetto di un palazzo a due passi da Venice, dividendo le sue giornate tra le lezioni all’UCLA e i vagabondaggi lungo quella spiaggia brulicante di vita e di rinnovamento, bohèmien tra i bohèmiens. Viveva solo. Da sempre insofferente a qualsiasi cosa rappresentasse l’autorità, aveva già formalmente rotto i rapporti con la sua famiglia d’origine. Il padre, un autoritario ufficiale della marina dell’esercito americano, rappresentava in pieno quel potere costituito cui Jim, già da tempo, aveva dichiarato guerra. I genitori disapprovavano fermamente la sua scelta di studiare cinematografia, limitandosi a mantenerlo con un magro assegno mensile. Di lì a poco, Jim avrebbe smesso anche di sentirli, cominciando a spargere la voce che fosse orfano. Per Morrison Los Angeles e la California furono la tappa finale di un’infanzia e di un’adolescenza trascorsa a spostarsi da un luogo all’altro dell’America per via dei continui trasferimenti dovuti al lavoro del padre. Nato a Melbourne, in Florida, era stato ad Albouquerque nel New Mexico, a Washinghton D.C. e in moltissime altre città. A L.A., trovò finalmente la sua dimensione ideale.
In quel terremoto rivoluzionario che stava per esplodere definitivamente e che avrebbe trovato nel Pacific West la sua patria elettiva, la musica giocò senz’altro il ruolo più importante. Bob Dylan e Joan Baetz avevano appena rivoluzionato l’idea stessa di canzone, con testi che non si esaurivano in semplici e orecchiabili tormentoni d’amore, ma cantando la pace, l’antimilitarismo, l’angoscia esistenziale, la voglia di cambiamento. E dall’Inghilterra spiravano uragani. I Beatles avevano spazzato via d’un colpo tutto il vecchio con un look scioccante e creando veri e propri momenti di psicosi collettiva durante i loro concerti, gli Stones si ponevano come il loro controcanto sporco e maledetto.
Morrison non poteva restarne indifferente. Suggestionato da Nietzsche e dagli studi sul carattere dionisiaco della tragedia greca, era attratto dal caos, dal disordine, dalle cerimonie di liberazione di coscienza collettiva, dalla manipolazione delle masse. Il futuro Re Lucertola, affascinato dagli isterismi che accompagnavano ogni spostamento dei Beatles, dagli Stones e in particolare dal loro mefistofelico chitarrista Brian Jones, vide nel rock l’equivalente novecentesco dei riti dionisiaci dell’antichità.
Fu così che iniziò a scrivere canzoni e a coltivare l’idea di creare un gruppo rock. Sgombriamo subito il campo da un equivoco: le canzoni dei Doors, in particolare quelle dei primi album, non nacquero come poesie per poi essere successivamente musicate, ma videro la luce già sotto forma di pezzi musicali. Aiutato dai sempre più frequenti viaggi con LSD, Morrison, come lui stesso ebbe a dichiarare in seguito, iniziò a sentire un vero e proprio concerto in testa: era gran parte della musica che sarebbe finita nei primi due dischi dei Doors. Jim non sapeva nulla di musica, non possedeva i benché minimi rudimenti di grammatica musicale, per cui, l’unico modo per fissare quelle stupefacenti illuminazioni, oltre a fissarne i testi sulla carta, era quelle di canticchiarne in continuazione la melodia.
Tuttavia i Doors non sarebbero mai nati se Morrison non avesse incontrato, un giorno del 1965 sulla spiaggia di Venice, Ray Manzareck, ottimo tastierista e compagno di corso di Jim all’UCLA. Manzareck, che all’epoca suonava in una mediocre cover band assieme ai fratelli, fu l’unico a credere in Morrison, a intuire lo sterminato potenziale presente in quel giovane e apparentemente sconclusionato poeta in erba. Sulla spiaggia di Venice Morrison cantò a Manzareck alcune strofe di Moonlight drive e di altre canzoni appena composte. Ray ne rimase sconvolto, e portò Jim nella sua band. Gli altri componenti non capirono nulla dei testi di Jim: la sua rozzezza musicale, la sua voce inizialmente timida e incerta, priva di qualsiasi base, fece sì che uno dopo l’altro abbandonarono il progetto. Ma Manzareck non si diede per vinto, convinto fino allo stremo che prima o poi Morrison sarebbe esploso in tutto il suo talento. A Ray e Jim si aggiunsero, subito dopo l’abbandono degli altri, il chitarrista Robbie Krieger e il batterista John Densmore. E nacquero i Doors. Il nome scelto da Morrison per la band già ne identificava il carattere unico e, per così dire, letterario: era un esplicito richiamo ad alcuni versi di William Blake, uno dei poeti preferiti da Jim. “Quando le porte della percezione saranno finalmente aperte, tutto finalmente apparirà come realmente è: infinito”.
Le ventuno canzoni che compongono i primi due album della band, The Doors e Strange Days, nacquero tutte tra il 1965 e il 1966, nel corso delle interminabili sessioni nella rudimentale sala prove in casa di Ray e durante le innumerevoli esibizioni live nei piccoli club di Sunset Strip a Los Angeles. Il novanta per cento di quel materiale, proveniva da quello psichedelico concerto che suonava da anni nella testa di Morrison.
Spesso, in maniera superficiale e sbrigativa, si tende a liquidare i testi di Morrison come oscuri, privi di logicità, procedenti per illuminazioni singole e privi di un vero e proprio collante. Eppure non è così. Come lo straordinario ultimo Rimbaud delle Illuminations, anche la poesia di Morrison evoca e rimanda a un mondo “altro”, “superiore”, fatto di richiami e metafore che si inseguono, suggestioni che nascondono significati reconditi e profondissimi. Per comprenderli, oltre ad aver ben chiaro in testa il metodo di composizione di Morrison, che non era – per capirci – logico e consequenziale come quello di Dylan, ma che al contrario procedeva per analogie, giustapposizioni e corrispondenze sinestetiche simile, appunto, a quello di Rimbaud, Celine o Mallarmé, occorre anche tenere sempre ben presente (come per qualsiasi altro poeta che si abbia la pretesa di studiare e comprendere) il contesto storico in cui tali versi furono composti.
Una delle prime canzoni composte dalla band, che poi sarà il brano d’apertura, del primo album, fu Break On Through.
You know the day destroys the night
Night divides the day
Tried to run, tried to hide
Break on trhough to the other side…
“Lo sai che il giorno distrugge la notte, che la notte divide il giorno….ho cercato di correre, ho cercato di nascondermi….apri un varco dall’altra parte”.
Non è il miglior testo di Morrison, ma è una sorta di fondamentale manifesto poetico. La capacità sintetica e compressiva della poesia di Morrison appare già qui in tutta la sua dirompente efficacia: il tempo oggettivo, nell’immagine del giorno e della notte che si rincorrono incessantemente, è una prigione angosciante. Tutto ciò che è oggettivo, estetico, razionale, prestabilito, determinato, è prigione. Il tempo è prigione. Se è necessario reinventare una nuova società, allora occorre reinventare un altro tempo, un altro linguaggio. Non serve a nulla fuggire e nascondersi, occorre “aprire un varco dall’altra parte”, cioè allargare l’area della coscienza, andare al di là dei confini stabiliti, non accontentarsi del noto ed esplorare l’ignoto. In questi quattro versi, come a questo punto è facilmente comprensibile, c’è tutta l’urgenza di liberazione degli anni ’60.
 
Morrison era anche in grado di comporre straordinarie elegie d’amore. L’eutanasia sentimentale di The Crystal Ship, terza traccia del primo album, è senza dubbio uno dei vertici poetici del primo Morrison: “Prima che tu scivoli nell’incoscienza, vorrei avere un altro bacio/ Un’altra rapida possibilità d’essere felice/ Un altro bacio….I giorni si rincorrono pieni di dolore/ Chiudimi nella tua pioggia nobile/ Eri troppo folle quando correvi/ Ma ci ricontreremo ancora”.
Deliver me from reasons why you dreader cry, i dreader fly
“Salvami dalle ragioni per cui tu dovresti piangere e io dovrei volare”.
 
Messaggi reconditi di liberazione, elegie d’amore. Il terzo polo dello stile del primo Morrison era la rapida e stupefacente successione di immagini evocative, che in pochi versi riesce a creare atmosfere indimenticabili e travolgenti. In questo senso, il risultato migliore è senz’altro la stupenda Soul Kitchen, dedicata a Olivia, proprietaria del ristorante di Venice dove Jim era solito consumare i suoi pasti:
“Lasciami dormire tutta la notte nella cucina della tua anima/ Fammi scaldare la mente accanto alla tua graziosa stufa/ Se mi scacci, bambina, vagabonderò barcollando in siepi fluorescenti// Le tue dita intanto disegnano minareti/ Parlano un alfabeto segreto/ Mi accendo un’altra sigaretta e imparo a dimenticare”.
 
Versi come questi, sconosciuti a qualsiasi altra rock band, destinati a rimanere un caso unico, venivano consacrati dalle invenzioni musicali dei Doors in una strana, irripetibile, fantasmagorica e ipnotizzante miscela: la tastiera penetrante di Manzareck, gli assoli folk/jazz di Krieger e il tocco raffinato di Densmore, amalgamandosi all’immaginario di Morrison, crearono la leggenda dei Doors. I rari testi che non provenivano dalla penna di Morrison, erano opera di Robbie Krieger. Suo è, ad esempio, il testo del singolo più fortunato della loro fulgida carriera, Light My Fire, destinato a renderli celebri nel giro di poche settimane.
In questi mesi esaltanti di prove prendeva rapidamente forma tutto quanto l’immaginifico universo poetico di Jim. Cosa chiedeva Morrison alla sua poesia e alla sua musica? Chiedeva, come dichiarato in Break On Through, di “aprire un varco”. Per farlo era necessario ritornare a un mondo arcaico, primordiale e ancestrale, ricercare le origini dionisiache dell’umanità, la più arcaica comunione mente-corpo, il più alto e inarrestabile sregolamento di tutti i sensi. I suoi versi presero così a popolarsi di immagini e simbologie che sarebbero ritornate ossessivamente in tutte le sue composizioni più celebri e sconvolgenti: il fuoco, il deserto, il serpente, la lucertola, simboli di un primitivismo ormai perduto, di verità oscure da ricercare e da riportare alla luce. Come Antonin Artaud, anche Morrison voleva scandagliare l’animo umano in tutta la sua oscurità e violenza per svelarne la verità.
Inoltre, il rock per Jim non fu mai successione di canzoni. Il famoso concerto che si svolgeva nella sua testa non era una semplice live performance, ma un vero e proprio rito teatrale, erotico, dionisiaco e sciamanico.
Lo sciamano appunto. La storia che Morrison amava più raccontare della sua infanzia era quella relativa all’incontro sull’autostrada con un camion di indiani Navaho coinvolti in un terribile incidente. A detta sua, l’anima del vecchio sciamano sanguinante sarebbe balzata fuori dal corpo morente dell’anziano entrando nel suo e impossessandosene per sempre. Un simbolo ovviamente. Morrison, con la sua poesia, voleva essere lo sciamano del rock, e come uno sciamano condurre i suoi ascoltatori in un primordiale e rivelatore rito eleusino di rivelazione collettiva.
Fu unendo tutte queste istanze e tutte queste suggestioni che Morrison diede forma ai suoi più immortali capolavori, prima fra tutte l’epica e sconvolgente The end.

(continua…)

VENERDI PROSSIMO NON PERDERE LA TERZA PUNTATA DE
I SEGRETI DI JIM
"Uccidi il padre, scopa la madre"
 

 

giovedì 9 ottobre 2014

ROSA FRESCA AULENTISSIMA (Lezioni Minime, dalle origini al trecento, Storia della Letteratura Italiana, secondo capitolo)

Lezioni Minime - Storia della letteratura italiana

DALLE ORIGINI AL TRECENTO  

Per leggere i capitoli precedenti:
Primo Capitolo

Secondo Capitolo
ROSA FRESCA AULENTISSIMA 

Dopo le guerre di Provenza, i giullari si riversarono in maniera massiccia e capillare in tutta la penisola italiana. 
Così di conseguenza, nel giro di pochi anni, la poesia laica in volgare, specie a tematica amorosa, che aveva fatto la fortuna dei poeti occitani, si diffuse in tutta Italia, riscuotendo così tanto successo da favorire, se non addirittura determinare la nascita della Letteratura Italiana. 

Ovviamente, in un'Italia estremamente frammentata come quella del 1200, teatro non solo delle guerre tra Impero, Papato e Comuni, ma anche di guerre civili all'interno delle stesse istituzioni comunali, l'avvento e lo sviluppo della Letteratura non potevano avvenire in maniera identica e uniforme. 
Però, se ragioniamo per grandi numeri, possiamo individuare tre grandi aree geografiche: il nord, dove all'imitazione e alla traduzione delle poesie dei provenzali iniziò ad andare di moda la poesia mistica, allegorica e visionaria; il centro, dove dominò la poesia religiosa; il sud, dove sempre ispirandosi alla poesia laica provenzale, nacque la prima "scuola" poetica della storia della Letteratura Italiana. 

Partiamo proprio dal sud. 
Per riportare la sede dell'Impero in quella che era ancora ritenuta la sua sede naturale, l'Italia appunto, e per controllare più da vicino le manovre politiche del Papa, Federico II di Svevia decise di trasferire la corte imperiale in Sicilia. 
Con l'ambizione di emulare gli antichi imperatori romani, Federico II investì moltissimo, con scopi ovviamente propagandistici, nella cultura. 
Tra le altre cose, fondò l'Università di Napoli e la Scuola Medica di Salerno. E, cosa che ci interessa maggiormente, attorno al suo regno, favorita e incoraggiata direttamente dalla sua persona, fiorì la cosiddetta Scuola Siciliana

Come già detto, si tratta a tutti gli effetti della prima scuola poetica (o primo movimento poetico, che dir si voglia) della Letteratura Italiana. Ma con una caratteristica del tutto particolare. Anzi, più che particolare, diciamo proprio assurda e grottesca: nessuno dei suoi componenti era un poeta né, più genericamente, un letterato
Com'è possibile tutto ciò?
Semplice: una delle grandi ambizioni di Federico II era proprio quella di avere una poesia di corte, ma non essendoci in Sicilia poeti "di professione" (non dimentichiamoci che la Letteratura Italiana doveva ancora nascere), investì dell'altissimo compito persone che poeti non erano, ma erano tutti uomini di legge, avvocati, notai, tutti freschi di laurea all'Università di Napoli fondata dall'Imperatore. 

Di gran parte della letteratura che tutti noi abbiamo studiato a scuola, ne conserviamo un ricordo decisamente pesante. Ecco, nel caso della Scuola Siciliana, il liceo non c'entra: è veramente pesante e poco sostenibile
Del resto, come potrebbe essere altrimenti? Certo i siciliani furono importanti, importantissimi: oltre a dare il "la" alla poesia in volgare italiano, tra le tante cose inventarono il sonetto, che divenne da subito la forma metrica d'eccellenza della poesia italiana. Ma se si parla di emozioni proprio no, non ci siamo. La poesia dei siciliani è fredda, schematica, per forza di cose - non essendo veri poeti e quindi non mossi da reale necessità nello scrivere - costruita a tavolino. 

Su che basi però, Giacomo da Lentini e gli altri autori siciliani, costruirono queste poesie a tavolino? 
Sulla base ovviamente della poesia dei trovatori provenzali, quella poesia "importata" in Italia, e quindi anche in Sicilia, dai giullari. 
I sonetti e le canzoni della scuola siciliana, ricalcano infatti (a volte sono praticamente delle traduzioni) gli schemi tematici dei trovatori e dell'amor cortese: la perfezione della donna, l'amore come un patto di fedeltà tra il cavaliere/servitore e la dama/padrona e via dicendo. 

Ma dove la troviamo la "mano" dei giullari, la traccia del loro passaggio? 
Come si è detto nel capitolo precedente, il giullare era un artista poco classificabile, essendo contemporaneamente attore, ballerino, musico e scrittore. Ovvio quindi che spesso e volentieri i giullari, senza alcuna soluzione di continuità, si mescolassero e si confondessero ai letterati "puri". 
Proprio nella Sicilia dei primi decenni del 1200 troviamo uno dei casi più lampanti, interessanti e divertenti di questa mescolanza. 

Prima di tutto, una precisazione: della scuola siciliana noi non leggiamo gli originali.  
Quando a metà secolo crollò l'Impero svevo nell'Italia del sud, gran parte dei suoi patrimoni andarono perduti. Tra questi, i manoscritti dei poeti della Scuola Siciliana. 
E allora, se andarono perduti, come facciamo a leggerli? Presto detto: gli originali furono trascritti da copisti toscani, che però non si limitarono a ricopiarli, ma li tradussero. Perciò noi non leggiamo gli originali in volgare siciliano, ma le traduzioni in volgare toscano. 
Tutti tranne uno, il componimento intitolato Rosa fresca aulentissima
Perché, tra i tanti, questo fa eccezione? Perché il suo autore, tale Cielo d'Alcamo, di cui sappiamo quasi nulla, non era un poeta della Scuola Siciliana, ma bensì un giullare.

Facciamo un po' d'ordine e cerchiamo anzitutto di capire due cose: cosa sappiamo di questo autore e cosa sappiamo di questo testo?
Partiamo dalle certezze: Cielo d'Alcamo (anche se probabilmente non si chiamava così, ma su questo torneremo dopo) era sicuramente un giullare, molto vicino ai poeti della Scuola Siciliana, anch'egli siciliano e vissuto nella prima metà del 1200.
Rosa fresca aulentissima, unico testo a noi noto dell'autore, è un contrasto, cioè un componimento tipico del repertorio comico giullaresco, e fu scritto senza dubbio dopo il 1231(promulgazione delle Costituzioni Melfitane) e prima del 1250 (morte di Federico II).
Da dove ricaviamo queste certezze? Semplicemente dall'analisi diretta del testo. Perciò, non perdiamoci troppo in altri discorsi superflui e andiamo a vedere la poesia.

Si tratta, si è già detto, di un contrasto. Come funzionavano, come erano fatti questi contrasti? Il contrasto era una specie di poesia in forma di dialogo, con un botta e risposta tra due personaggi, sempre un uomo e una donna, con uno schema abbastanza semplice di una battuta per strofa.
Un dialogo quindi, che ci richiama immediatamente il teatro e la recitazione in genere. Ecco quindi perché i contrasti erano una specie di "cavalli di battaglia" del repertorio dei giullari: non si limitavano a declamarli, ma li recitavano, interpretando e mimando contemporaneamente entrambi i personaggi.
Quindi, per essere precisi, più che una poesia, il contrasto è il testo di una breve azione teatrale recitata da un solo attore (il giullare) che recita contemporaneamente tutte le parti.
Ed essendo pure il contrasto di derivazione provenzale, era anche accompagnato dalla musica.

Si diceva nel capitolo precedente come i giullari, durante i loro spettacoli, recitassero le poesie dell'amor cortese dei poeti trovatori. Vero, verissimo. Solo che oltre a recitarle (e a diffonderle) ne facevano anche la parodia.
Ecco, il contrasto era anche questo: la parodia della poesia amorosa dei poeti trovatori.
La tematica dei contrasti infatti, era sempre quella. L'uomo faceva esplicite avances sessuali alla donna, lei all'inizio rispondeva sdegnata e sdegnosa, lui insisteva in un crescendo di allusioni e doppi sensi erotici e lei alla fine si concedeva. L'esatto contrario delle passioni spirituali dell'amor cortese.

Rosa fresca aulentissima non fa eccezione, trattandosi di contrasto a tematica erotica. Il suo autore quindi, Cielo d'Alcamo, non può che essere un giullare.
Un giullare siciliano per la precisione, visto che la lingua del contrasto è un siciliano molto popolare, che ricalca lo strato sociale dei due protagonisti dell'azione scenica, un gabelliere (cioè un esattore delle tasse) e una popolana (anche i personaggi, sempre di umili origini, sono la parodia degli amanti aristocratici della poesia dei trovatori).
Ma è lo stesso nome dell'autore a darci la prova definitiva del suo essere giullare siciliano. D'Alcamo, cioè di Alcamo o da Alcamo, paese a pochi chilometri da Palermo.
Cielo invece, con ogni probabilità è un toscanismo derivante dall'errore di un copista. Come hanno dimostrato illustri studiosi (De Bartholomeis, Toschi, D'Ancona... ), il vero nome del nostro autore è Ciullo.
Lo possiamo intendere in due modi, o come diminutivo di Vincenzo - Vincenzullo, oppure come vero e proprio nome d'arte. Tutti i giullari ne avevano uno, ed era sempre un nome scurrile, carico di doppi sensi erotici e sessuali.
Ciullo infatti, altro non è che uno dei mille modi per chiamare l'organo genitale maschile. Essendo un giullare, e leggendo il testo di Rosa fresca aulentissima propendiamo decisamente per questa ipotesi.

Ovvio che a scuola mica ce la raccontano tutta sta storia... ma fosse solo per il pudore di non dire che questo autore aveva scelto di chiamarsi come il pisello, non sarebbe poi così grave. Il delitto vero e proprio lo fanno le antologie, che pur riportando sempre Rosa fresca aulentissima quasi sempre ne censurano completamente la spiegazione corretta, preferendo giri di parole incomprensibili che, oltre ad annoiare a morte i poveri studenti, sono colossali menzogne.

Vediamolo allora, questo testo.
La scena è la piazza di una città. C'è il gabelliere, che sta facendo il giro della riscossione delle tasse, per strada, mentre la donna è affacciata alla finestra. Il gabbelliere la vede e dice:

"Rosa fresca aulentissima ch'apari inver' la state,
le donne ti disiano, pulzell' e maritate:
tràgemi d'este focora, se t'este a bolontate;
per te non ajo abento notte e dia,
penzando pur di voi, madonna mia"

La parafrasi, pare abbastanza semplice: "Rosa fresca e profumatissima, che appari verso l'estate, le donne ti desiderano, quelle giovani e quelle maritate".
La Rosa, da che mondo e mondo, nella poesia è simbolo della donna amata. Lei, la popolana affacciata alla finestra, è la rosa che appare verso l'estate. Semplice, semplicissimo.
Ma siamo sicuri? Qui c'è più di qualcosa che non torna. Prima di tutto, come fa una rosa ad apparire, e quindi a fiorire, verso l'estate? D'estate le rose non fioriscono, appassiscono e si bruciano, semmai. E poi, la donna è così tanto fresca e profumata che le donne la desiderano? Le pulzelle e le maritate??
No, proprio non torna questa parafrasi.
Allora, qual è quella corretta? Usciamo dalla dimensione strettamente letteraria ed entriamo in quella della messa in scena del contrasto.
Concentriamoci sul personaggio maschile: il gabelliere all'epoca indossava un lungo gonnellone nero, facilmente sollevabile. Questo perché alla coscia, legato con un laccio, portava il Libro Mastro della riscossione delle imposte. Ogni casa doveva fermarsi, sollevare il gonnellone, tirare su la coscia e segnare sul libro se la famiglia aveva pagato oppure no. Il tutto in una posizione simile a quella delle gru, con una gamba a terra e l'altra sollevata.
Ed è proprio in questa posizione che il nostro gabelliere si trova all'inizio del componimento, come una gru, intento a controllare il Libro Mastro.
A cosa serve sapere queste cose? Serve a capire l'intera poesia. Vediamo perché.
Quel particolare tipo di gonnellone, in volgare siciliano aveva un nome specifico, si chiamava state (o stati). Se allora la state della fine del primo verso non è l'estate, e se il gabbelliere sta nella posizione della gru, è chiaro che la rosa fresca e profumatissima non è la donna, ma qualcos'altro.
La rosa che appare verso la state, verso il gonnellone, è sempre lui, il pisello, il ciullo in persona. Ecco perché le donne lo desiderano, le pulzelle e le maritate!!
Capito questo, il resto della parafrasi diventa davvero semplicissimo: "tirami fuori da questo calore, se ne hai volontà, per te non ho sollievo, notte e giorno, pensando proprio a voi, donna mia".
Non è la donna a non dargli sollievo, ma la rosa, che lo tormenta - facile immaginare come, proprio quando pensa alla donna.

Lo schema narrativo del contrasto, si è già detto.
La donna respinge i bollenti spiriti dello spasimante in maniera netta e definitiva. Leggiamo nella sua risposta:

avere me non pòteri a esto monno,
avanti li cavelli m'arritonno.

Capito? Lei gli dice che piuttosto che darsi a lui, si toserà i capelli, cioè piuttosto che andare a letto con lui preferisce farsi monaca.
Ma il nostro gabbelliere non si dà per vinto.

Se li cavelli arritonniti, avanti foss'io morto,
ca' n issli mi pèrdera lo sollaccio e 'l diporto.
Quando ci passo e vejoti, rosa fresca de l'orto,
bono conforto donimi tutte l'ore,
poniamo che s'ajunga il nostro amore.

Le dice che preferirebbe morire, se lei si facesse monaca. Con la perdita dei capelli, lui perderebbe la gioia e il piacere.
Al di là del senso letterale, capito la sottigliezza, capito la parodia dell'amor cortese? Al giullare-gabelliere questa fanciulla piace fisicamente, lo attrae dal punto di vista erotico e sensuale, la vuole portare a letto, l'amore platonico non c'entra nulla. Infatti, senza capelli non lo attirerebbe più!
E affinché non sussista alcun dubbio sulle sue reali intenzioni, lui chiude dicendo: poniamo che s'ajunga il nostro amore, cioè "facciamo in modo che si coniughi il nostro amore", cioè che si intrecci in senso fisico.
Visto che lui proprio non sente ragioni, la ragazza a questo punto passa alle minacce. Se non la smette, dice lei nella strofa successiva, chiamerà i suoi parenti a fargli dare qualche bella legnata di lezione.
Ma neanche le minacce scompongono il nostro gabelliere. Appena sente la ragazza nominare la vendetta dei suoi parenti, ecco che sfodera la battuta più satirica dell'intero contrasto. Le dice:

Se i tuoi parenti trovanmi, e che mi pozzon fare?
Una defensa mettonci, di dumil' agostari:
non mi toccare padreto per quanto avere ha in Bari.
Viva lo 'mperadore, grazi a Deo!
Intendi, bella, quel che ti dico eo?

La parafrasi è la seguente: "Se i tuoi parenti mi trovano, che mi possono fare? Io ci metto una defensa di duemila augustari: e tuo padre non mi può toccare per tutti gli averi della città di Bari. Viva l'Imperatore, grazie a Dio! Capisci, bella, quel che ti sto dicendo?".
Sì, la bella fanciulla ha capito, e fin troppo bene, quel che gli sta dicendo il gabelliere.
Ma noi, noi abbiamo capito? No, noi non abbiamo capito una mazza. Il perché questo passo ci suona incomprensibile è semplicissimo: non sappiamo cosa fosse la defensa.
Nel 1231, durante un periodo d'assenza di Federico II dalla Sicilia, scoppiò una rivolta popolare in tutta la regione. Gli aristocratici riuscirono a domarla, reprimerla nel sangue e a difendere il palazzo dell'Imperatore dall'assalto.
Come ricompensa ai nobili per aver salvato la sua corte, Federico II appena tornato promulgò le Costituzioni Melfitane, una serie di leggi che ampliavano a dismisura i privilegi aristocratici in tutto il territorio dell'Impero.
Tra queste vi era appunto la defensa, una specie di assurda e pazzesca tassa sullo stupro. In parole povere: ogni nobile o alto borghese maschio poteva tranquillamente stuprare una popolana a patto che, a stupro appena ultimato, gettasse sul corpo della ragazza la somma prevista dalla tassa, duemila augustari. Pagato questo indennizzo, lo stupratore non era più perseguibile dalla legge. Nel caso in cui, richiamati magari dalle urla della donna, fossero arrivati i parenti di lei, sarebbe stato sufficiente che lo stupratore, levando le braccia al cielo, gridasse "Viva l'Imperatore, Grazie a Dio!", per far capire che aveva pagato la defensa, e nessuno avrebbe potuto toccarlo. Se lo avessero toccato, i parenti sarebbero subito stati impiccati, senza nemmeno un processo.

La spiegazione di questo passo è, come si suol dire, la quadratura del cerchio.
Solo un giullare, e non certo un poeta di corte al servizio dello stesso Imperatore, poteva lanciarsi in una satira così netta e graffiante.
Peccato solo che nessuno, o quasi nessuno, lo ricordi, e che sempre, o quasi sempre, un testo divertente e ferocemente satirico come Rosa fresca aulentissima, venga trasformato nell'ennesima noia mortale da sopportare durante le ore di scuola.
La defensa aveva di fatto legalizzato lo stupro.
Non spiegare a dovere questo testo, è di fatto la tacita legalizzazione dello stupro della Letteratura Italiana.

Giovedì prossimo non perdere:
Terzo Capitolo, GIULLARI IN UMBRIA
dove si vedrà come anche la grande poesia religiosa di Francesco d'Assisi e Iacopone da Todi fu influenzata in maniera decisiva dai giullari.

VUOI APPROFONDIRE QUANTO HAI APPENA LETTO?
Ecco alcuni suggerimenti:
ho setacciato le antologie scolastiche di mezzo mondo, senza trovare una spiegazione che mi soddisfi, né suoi contrasti in generale, né su Rosa fresca aulentissima in particolare;
perciò, ti consiglio di andare in biblioteca e cercare questi due libri: Le origini del teatro italiano, di Pietro Toschi, edizioni Il Mulino, volume I, dove si parla moltissimo della diffusione dei giullari in Italia nel 1200, del genere dei contrasti e nello specifico di Ciullo d'Alcamo e di Rosa fresca aulentissima; cerca anche, ma devi andare in una biblioteca veramente grande, un libro immortale dello storico Alessandro D'Ancona, Le origini della poesia italiana, risalente addirittura al 1891!
se vuoi invece qualcosa di più contemporaneo, l'unico che ha affrontato in maniera davvero approfondita la questione è Dario Fo in Mistero Buffo, dove oltre a spiegarci origine e natura dei giullari, dedica un capitolo intero proprio a Rosa fresca aulentissima; il libro lo trovi in tutte le librerie edito da Einaudi; lo spettacolo lo trovi tranquillamente su YouTube.

mercoledì 8 ottobre 2014

INCREDIBILE... MA VERO!


LESTOrie... in diretta dal lestobunker... 


INCREDIBILE... MA VERO!

Aficionados amatissimi nostri,
rieccoci qui con voi nel consueto spazio del mercoledì, LESTOrie, rubrica d'argomenti molteplici, ma che in particolare è dedicata alle quotidiane follie e alle quotidiane assurdità che ammorbano il pianeta terra da cui noi, bene ricordarlo per i neofiti, siamo scappati a gambe levate rifugiandoci qui nel lestobunker, centinaia e centinaia di chilometri sottoterra.
 
Oggi amici cari, si parla di STORIE INCREDIBILI. Non incredibili nel senso di eroiche, ma incredibili nel senso di GROTTESCHE, idiozie colossali commesse da uomini e donne di tutto il mondo nel loro quotidiano.
Le abbiamo cercate e catalogate, nell'intento di fare, un giorno, un'enciclopedia universale della stupidità.
Ovviamente, in questa ricerca catalogante, s'è fatto una ferrea selezione. Anzitutto nell'elenco delle storie incredibili abbiamo escluso tutte le LEGGENDE METROPOLITANE, tipo quella dei coccodrilli nelle fogne di New York, per intenderci. Visto che siamo persone serie/serissime, abbiamo scelto solo ed esclusivamente quelle COMPROVATE, REALMENTE ACCADUTE.
Sono migliaia, comunque. Perciò, al solito, la ferrea selezione di questo post è stata dettata solo ed esclusivamente dal nostro gusto, che è pessimo, ma non importa.
Orbene, squillino le trombe e mandiamo subito sta tranche di follie dal mondo... se ne avete altre, segnalatecele e vedremo di pubblicarle... tre due uno... VIA!
 
LA MUMMIA SUL WATER (Serbia)
Milan Dzombic, di anni 76, pensionato di Belgrado, morì per un improvviso malore mentre era tranquillamente seduto sul water di casa sua, dove viveva da solo.
Fin qui niente di strano. Cose che succedono, purtroppo. Il problema è che, essendo il poveraccio tipo completamente solitario e privo di parenti, NESSUNO SI E' ACCORTO DELLA SUA MORTE. La pensione continuava ad essere accreditata normalmente sul suo conto corrente, così come sempre sul conto gli venivano addebitati l'affitto e le altre utenze.
Fino all'anno successivo, quando il corpo è stato trovato a causa dell'allagamento dell'appartamento del piano di sotto per la rottura di un tubo.
Il corpo, rimasto nell'ambiente fresco del bagno, dopo un anno era COMPLETAMENTE MUMMIFICATO.
 
CON LA FORZA DEL PENSIERO (Cina)
Assurdo!
Un mago cinese di appena ventidue anni, a Pechino, convinto di possedere poteri paranormali, si è sdraiato sulle rotaie della ferrovia CONVINTO DI RIUSCIRE A FERMARE IL TRENO CON LA SOLA FORZA DEL PENSIERO.
Il tutto davanti agli occhi della madre, cui il giovane pretendeva orgogliosamente di mostrare i suoi superpoteri.
Inutile dire com'è andata a finire...
 
IL GIALLO DEL PRESEPE (Italia)
In Lombardia, sotto Natale, un ladro ha rubato le statue del bue e dell'asinello di una piccola chiesa di provincia. Pare che le statue fossero molto preziose. Ma il colpo non è andato a buon fine. Il ladro è stato intercettato e arrestato il giorno dopo, e la refurtiva recuperata e rimessa al suo posto.
Niente di strano, se non che il brigadiere autore dell'arresto risponde al nome di SEBASTIANO GESU'.
 
MI SPARO TRE VOLTE (USA)
West Virginia, Stati Uniti d'America.
Un tizio è finito all'ospedale per TRE FERITE d'arma da fuoco al piede, sempre lo stesso, il destro.
La dinamica, spiegata dall'uomo ferito agli inquirenti, è PAZZESCA: sorseggiando birra (chissà quanta... ) si è messo a pulire le sue TRE PISTOLE. Prima una calibro 32 da cui, pulendola, è PARTITO UN COLPO FERENDOLO AL PIEDE. Al di là del fatto che di solito le pistole si puliscono quando sono scariche, la cosa più incredibile è che l'uomo ha dichiarato: "però non mi faceva molto male... così ho continuato a pulire le mie pistole!".
Allora ha preso la seconda pistola, calibro 38, e anche da questa, pulendola, è partito un colpo che gli ha centrato l'ALLUCE DESTRO. "Sinceramente questo secondo colpo mi ha fatto un po' male", ha dichiarato l'uomo (e vorrei vedere!!), "ma già che c'ero ho continuato!".
E allora ha preso la terza pistola, altra calibro 32, dalla quale è PARTITO IL TERZO COLPO.
A questo punto l'uomo, che di sicuro appartiene alla corrente filosofica dello stoicismo, si è arreso, recandosi all'ospedale col piede tutto bucherellato...
Io boh...
 
CONGELARE SCOIATTOLI (USA)
Storia di violenza domestica, come purtroppo se ne sentono tantissime al giorno d'oggi.
Un marito, in California, ha picchiato la moglie mandandola all'ospedale.
Cosa c'è di pazzesco? IL FATTO CHE L'ABBIA PICCHIATA USANDO GLI SCOIATTOLI CONGELATI CHE LA COPPIA TENEVA IN FREEZER!!!
Lasciamo stare la violenza domestica per una volta... e concentriamoci su un'altra cosa: PERCHE' CAZZO STI DUE CONGELAVANO SCOIATTOLI????
 
ANATRA IN TRIBUNALE (USA)
Un trentaseienne del Colorado, il giorno prima del suo matrimonio, è stato AGGREDITO da un'anatra nel suo giardino. Per sfuggire all'AGGRESSIONE, è caduto lesionandosi due vertebre. Si è dovuto sposare con un busto rigido, fare tutto il viaggio di nozze immobilizzato e, quel che è peggio, ha pure perso il lavoro.
Gli avvocati dell'uomo hanno CITATO IN GIUDIZIO L'ANATRA, CHIEDENDO UN RISARCIMENTO DANNI DI UN MILIONE DI DOLLARI.
L'esito del processo, è a tutt'oggi sconosciuto...
 
RAPINA MISTICA (USA)
E' accaduto in una chiesa cattolica di New York.
Durante l'omelia del sacerdote Napoleon Harris, tre banditi armati e incappucciati hanno fatto irruzione nella chiesa intimando tutti i fedeli di sdraiarsi a terra e consegnare tutti i loro averi. Il sacerdote non si è scomposto, e mentre i fedeli terrorizzati cominciavano a consegnare i loro soldi ha continuato con la predica, ammonendo i banditi e chiedendogli di fermarsi "nel nome del Signore".
Miracolo: I TRE BANDITI SI SONO FERMATI, INGINOCCHIANDOSI E PENTENDOSI. Assoluzione del parroco e novantadue minuti di applausi dei fedeli.
Peccato solo che una settimana dopo si è scoperto si trattasse di una messa in scena organizzata dallo stesso sacerdote...
Mah...

VIGILI IRREPRENSIBILI (Italia)
In Liguria una pattuglia della Stradale ha FERMATO UN'AMBULANZA PER ECCESSO DI VELOCITA'. Tutto perché, ovviamente, l'ambulanza non aveva la sirena spiegata.
L'autista dell'ambulanza ha spiegato, e soprattutto HA MOSTRATO AGLI AGENTI come all'interno dell'Ambulanza ci fosse un FERITO GRAVE con una EMORRAGIA INTERNA in corso, e che la sirena non era stata azionata solo per la fretta di ripartire all'istante.
Gli agenti non hanno sentito ragioni, e CON TUTTA CALMA HANNO STILATO IL VERBALE MULTANDO L'AMBULANZA DI LIRE 140.000.
 
L'AUTOBUS ROVINAFAMIGLIE (Inghilterra)
Storia pazzesca accaduta a Londra.
Lui e lei si sposano. Tutto normale.
Lui in viaggio di nozze la porta a vedere ESCLUSIVAMENTE DEPOSITI DI AUTOBUS (un po' meno normale).
Le foto della luna di miele sono 36MILA, TUTTE DI AUTOBUS (molto poco normale).
Pochi mesi dopo i due sposi hanno un incidente nel quale la donna resta seriamente ferita. Motivo dell'incidente: il marito si era distratto PER GUARDARE UN AUTOBUS.
A quel punto la donna esasperata è sbottata: O ME O L'AUTOBUS.
Pare che lui, per rifletterci e rispondere, abbia fatto un giro in autobus... e lei ha chiesto il divorzio...
 
E con questo, per oggi, è davvero tutto..
Alla prossima, aficionados!!
 
il Lesto
 
 
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martedì 7 ottobre 2014

CARO RENZI TI SCRIVO...

LestOpinioni

CARO RENZI TI SCRIVO...


Egregio Presidente, Spettabile Segretario,
mi permetto di scriverLe alcune mie modeste opinioni su questo piccolo spazio pubblico da me gestito personalmente.
 
A scriverLe, premetto, è un uomo completamente di sinistra, di quella sinistra che lei forse definirebbe barricadera, e che a me invece piace chiamare movimentista. Ex militante attivo di Rifondazione Comunista, tra i fondatori dei Social Forum locali nella corrente Tute Bianche/Disobbedienti, da ormai sei anni ufficialmente cane sciolto e privo di rappresentanza parlamentare.
 
Come avrà senz'altro capito dal mio curriculum politico, sono distante diversi anni luce dal Suo pensiero, nonché in totale dissenso con la Sua recente azione governativa.
Ma non è a Lei in quanto Presidente del Consiglio che mi rivolgo, quanto piuttosto a Lei nella Sua funzione di Segretario Nazionale del Partito Democratico.
Sempre scorrendo il solito mio curriculum, è altrettanto evidente come io sia strutturalmente lontanissimo anche dal Partito Democratico in quanto tale.
In questi ultimi sei anni, Le confesso, come per molti altri compagni ho vagato smarrito tra le nebbiose macerie della Sinistra che fu, sposando sempre meno convinto questo o quell'altro progetto di ricostituzione, oscillando tra Sel e zone limitrofe.
Eppure, strano a dirsi, qualcosa come un anno e mezzo fa mi sono ritrovato molto vicino al partito che adesso Lei rappresenta.
E, mi creda, non è stata una di quelle vicinanze da trincea, da mancanza di alternative, in nome dell'antiberlusconismo o della logica del meno peggio.
Si è trattato di una vicinanza reale, sentita, convinta.
Una convinzione dettata dalla linea politica, dal progetto di Italia di Pierluigi Bersani. E ribadisco linea politica e progetto, non dalla persona in quanto tale (mai creduto, né mai crederò, nei "salvatori della Patria").
Il perché di questa vicinanza è presto spiegata: pur essendo due mondi lontani, quello "moderato" della socialdemocrazia bersaniana e quello della mia storia politica, il progetto dell'ex Segretario del Partito Democratico prevedeva delle linee di azione da intraprendere nel solco dei valori imprescindibili della Nostra Storia, laddove per Nostra Storia intendo storia della sinistra e del centrosinistra.
 
I valori caro Renzi, quei valori che non costituiscono, come Lei sempre più spesso dichiara, un attaccamento al passato, un freno all'innovazione o, peggio ancora, dei paraocchi ideologici.
Sono, al contrario e più semplicemente, il nostro dna, la nostra differenza da una visione del mondo di destra o di centrodestra che dir si voglia.
Le proposte, caro Renzi, nonché le modalità di azione, quelle sì, si aggiornano, si rinnovano, si rivoluzionano in base ai tempi e ai contesti storici e sociali che si vivono. Ma i valori no, quelli restano immutabili.
Rinunciare a se stessi, alle fondamenta della propria visione del mondo, non vuol dire innovazione, vuol dire snaturare la propria essenza. Ed è proprio questo che Lei sta chiedendo in questi mesi al popolo di sinistra: dimenticare chi è e da dove viene.
Ma Le chiedo Presidente: chi non ha passato, come può anche solo pretendere di avere un futuro?
 
Non Le chiedo ovviamente, a Lei che di sinistra non è, e che non è nemmeno di centrosinistra (il centrosinistra per me ha i nomi, e il modus operandi, di Romano Prodi, Pierluigi Bersani e via dicendo... ), di diventarlo, di snaturarsi appunto.
Le sto chiedendo semplicemente più attenzione.
Non Le contesto, come molti fanno da mesi a questa parte, di essere un "Presidente abusivo". Non ha avuto l'investitura del voto, verissimo, ma la Costituzione prevede completamente quei passaggi che hanno portato la Sua persona a Palazzo Chigi.
Vorrei soltanto che si ricordasse che cosa ha reso possibile quei passaggi.
Lei tira sempre in ballo i numeri, Presidente, arrogandosi il diritto di bypassare tutto e tutti in virtù del risultato storico del 41% conseguito alle elezioni europee, contro il 25% di Bersani alle ultime politiche. Complimenti per il risultato, Presidente, ma si ricordi che quel 41%, così come la sua stessa investitura a Presidente del Consiglio, non sarebbero mai esistiti senza quel 25%, senza una coalizione, quella di Bersani appunto, che se pur di poco tornava a battere Berlusconi dopo sette anni.
Si ricordi di quel 25%, e cerchi di rispettarlo, anziché irriderlo e calpestarlo continuamente.
Senza di noi (c'ero anch'io, in quel 25%), Lei oggi non sarebbe al governo. E noi abbiamo votato un programma che Lei non ha alcun diritto di distruggere.
Ero in quel 25% e non ero in quel 41%. Come me chissà quanti. Il PD del 25% aveva 500.000 iscritti, quello del 41% ne ha poco più di centomila.
Numeri che sicuramente non Le interessano. Eppure le chiedo: anche la partecipazione è un paraocchi ideologico da rottamare?
 
Cordiali saluti,
Riccardo Lestini