mercoledì 1 ottobre 2014

NADIA E LE ALTRE DUE (racconto di settembre)

Racconto del mese

NADIA E LE ALTRE DUE (la notte brava ma mica tanto)

(racconto di settembre)

 
Ponte Rabbione novembre e sabato sera e non c’è niente da fare e che cazzo vuoi fare a Ponte Rabbione, autunno inoltrato e inverno lontano, solo due bar aperti e pure deserti.
Luca non c’è, ha una tipa per le mani e l’ha portata al cinema per buttarla sull’intellettuale. Fabio ha la febbre, Cristiano domani va in trasferta, s’alza all’alba e pure lui non esce. Desaparecidos tutti gli altri, fidanzati, sposati, infortunati.
Manco le amiche zitelle ci sono stasera: Mara, Caterina e le altre tutte al ristorante per una cena femminista. Questa almeno la versione ufficiale. Chiaro che nell’aria c’è qualcosa tipo festa da rimorchio, sicuro per una e agognato per le altre, così vogliono sentirsi libere di sputaneggiare in santa pace senza amici maschi tra le palle a inibirle.
Così rimaniamo in tre, io Marco e Matteo, anzi iomarcoematteo, tutt’attaccato, perché così come stiamo, abbandonati dalla sorte in uno dei bar del paese e circondati dalla più tetra umanità possibile, ci appiccichiamo l’uno agli altri come all’ultima ancora prima del naufragio. Iomarcoematteo, un’unica figura informe svilita e avvelenata e furibonda, che se ci saltasse di botto, non dico tanto, ma appena appena il boccino del cervello, come minimo prenderemmo una rivoltella e ce ne andremmo a pistolettare a casaccio gli automobilisti sfreccianti lungo la statale.
Alle ventitre e quindici iomarcoematteo andiamo per la terza bevuta. Rum per me, sambuca per loro.
“Vita di merda”, dice Marco sbattendo il suo bicchiere contro i nostri.
“Vita di merda”, risponde Matteo.
Vita di merda penso io, ma non lo dico, e col rum che m’incendia lo stomaco scruto i desperados che barboneggiano al bar e ci circondano e ci deprimono. C’è l’ex professore di filosofia, impazzito da quando la moglie l’ha lasciato, che tracanna birre e sbava schiuma e sputacchiando a raggiera farfuglia da solo ricordando i tempi eroici delle contestazioni sessantottine. C’è l’elettricista alcolizzato che si spacca di Martini prima di andare a mignotte, tre obesi sudati che giocano a biliardo e una tizia devastata coi capelli unti che flirta con un pischelluccio vagamente tossico e sospetto microspacciatore di fumo, coca e crack. Chiudono il quadro vari sfigati locali che discutono di Moto GP e Champions League. E pensare che l’anno scorso, appena lasciata Benedetta e la casa dove eravamo andati a vivere promettendoci amore eterno, avevo smania di tutto questo, di sabati sera a scazzo e senza direzione, io, un paio d’amici zingareschi, sbronza d’ordinanza e stronzate a go-go. E invece adesso sta maledetta e rimpianta desolazione di paese mi devasta d’angoscia e mi chiedo che ci faccio io qui, trent’anni e Ponte Rabbione a novembre di sabato sera che non c’è un cazzo da fare?
“Vita di merda”, mi tocca concludere alla fine, a voce alta.
Proprio una bella vita di merda, un lavoro che faccio solo per inerzia, nessun editore interessato ai miei romanzi e regolari fughe dalla città ogni fine settimana per raggiungere sto buco di mondo che è Ponte Rabbione. Ma per cosa e in cerca di cosa? Bel cambio del cazzo, l’anno scorso avevo una casa pulita, una donna, mobili nuovi e quasi ogni notte otto ore di sonno. Adesso mi ritrovo un monolocale che puzza di sigaretta anche nelle maniglie delle porte, una cucina invasa dai resti di polli da rosticceria e la caldaia che perde. E nemmeno l’ipotesi di un vago futuro.
“Vita di merda”, ripeto ancora col bicchiere ormai vuoto mentre Marco di sua iniziativa ordina al bancone il quarto giro.
Ma a forza di mescolare rum e pensieri di questo tipo va a finire che entro mezzora siamo tutti a letto ubriachi e depressi. Occorre reagire. Prima di tutto basta coi pensieri sul futuro e coi pensieri sul passato: sti cazzi la casa pulita e i mobili nuovi, con Benedetta era un inferno, s’incazzava ogni tre per due e otto ore filate le dormivo per ridurre il tempo utile alle sue sfuriate. Quindi meglio così, decadente e sconclusionato.
“Andiamo da qualche parte!”, dico con una convinzione che scuote gli altri dai loro rispettivi solipsismi.
“E dove?”, chiede Matteo con aria smarrita.
“Al Fox?”, butto là.
“Ma è lontano…”, dice Marco. Poi rilancia: “Al Kantiere?”
“E’ un casino per parcheggiare.”
“E se andassimo al Buco?”
“Ma sono tutti pischelli!”
“Allo Zero Dodici?”
“No, ci lavora la mia ex e se mi vede mi avvelena i cockatil.”
“Al Braque?”
“Mi sta sul cazzo, troppi fighetti.”
Andiamo avanti così per un bel po’ senza trovare una soluzione, ma ostinati e fiduciosi che prima o dopo da questo vaglio scientifico di locali salti fuori la via d’uscita.
Alla sessantesima proposta bocciata e con la mezzanotte che incombe, al bar arrivano d’improvviso le strappone. Le annuncia il più tipico cicaleccio femmineo seguito dalla scia ubriacante di un altrettanto tipico profumo di donna da sabato sera. C’è poco da fare, cambiano le marche, i gusti, le essenze, ma i sapori dei profumi che le donne si mettono il sabato sera hanno un qualcosa di identico e inconfondibile, un retrogusto, un comune denominatore sicuramente studiato in laboratorio e capace in meno di dieci secondi di scatenare la furia ormonale di qualsiasi maschio del globo.
In trucco e tenuta da rimorchio a tutti i costi, le strappone sono quattro, capitanate da Chiara, indiscussa regina dello strappo e protagonista di almeno centotrenta tra le mie fantasie erotiche più perverse, ventottenne morbida e imponente, culo da sposa e fianco largo, quarta di seno straripante, forse pure una quinta, e due occhi neri neri che anche quando dice ciao spargono doppi sensi e ammiccamenti sessuali d’ogni ordine e grado. Quando la vedo entrare in minigonna nera di pelle stretta che più stretta non si può, calze color carne, stivali da cow-girl e una maglia vertiginosamente scollata da cui traboccano tette a non finire, mi si piantano all’istante in testa altre sedici fantasie erotiche, tutte nuove e inedite.
Anche le altre tre fanno, è proprio il caso di dirlo, la loro porca figura. In ordine di apparizione sono:
Gessica, scritto proprio così, perché a Ponte Rabbione la lettera J è arrivata soltanto nei primi anni novanta, e tra i nati nel ventennio precedente si conta una quantità imprecisata di Gionni, Genni e Gionatan. Gessica è piccolina e cicciotella ma sa come tenersi, anche lei ha due tette spaventose che offre al pubblico con scolli da campionato del mondo e le sue labbra sono tra le più carnose del centro Italia. E di sabato sera, con in corpo quantità industriali di alcol, queste qualità sono più che sufficienti.
Sonia, classico occhio azzurro su ancor più classico capello biondo, magra e slanciata, zero tette ma cosce stratosferiche e culo presumibilmente di marmo. Tutta un risolino Sonia, cervello in esilio permanente e movenze da valletta di seconda serata. Anche queste, soprattutto queste, qualità capaci di scatenare tempeste e guerre interstellari di feromoni maschili.
Nome ignoto, brunetta coi capelli a caschetto tipo Valentina di Crepax, non la conosco e sicuramente non è di Ponte Rabbione. Maglioncino a collo alto attillato e jeans stretti, sicuramente la meno strappona di tutte, ma in quanto sconosciuta ed elemento esotico gli sguardi più curiosi e interessati sono tutti per lei.
Nel frattempo il mondo si è fermato. Urli, chiacchiere, chiacchiericcio e bestemmie si sono dissolti nel nulla e occhi e pensieri convergono tutti sulle quattro strappone che ordinano da bere. Vengono da noi, ma niente di clamoroso: iomarcoematteo siamo semplicemente gli unici esseri umani presentabili del bar.
Chiara per salutarmi mi abbraccia e le sue tette inconcepibili mi si schiacciano addosso. Le sento dappertutto e le mie fantasie erotiche superano di colpo le duecento unità. Come da copione le strappone scherzano, ridono, ci provocano con disinvoltura.
Le seguiamo fuori dal bar. Disinibito dall’ennesimo rum non mi stacco da Chiara, le cingo la vita col braccio, scrocco palpatine, guadagno con le dita frammenti di fianchi e centimetri di culo. Al quinto abbraccio abbandono ogni remora e lascio scivolare le mani su quelle chiappe immense. Lei se ne accorge, ovviamente ride e sorride, e rilancia infilando la coscia velata di calze color carne tra le mie gambe. Ho ufficialmente un’erezione, potente e spaventosa. Per fortuna a Chiara arriva un sms e si stacca da me per leggerlo, dandomi modo di riprendermi.
Le altre chiedono che programmi abbiamo per la serata. Iomarcoematteo rispondiamo vaghi ed enigmatici. Le strappone andranno a una festa in un casolare in campagna, a detta loro delirio e divertimento assicurati. Venite anche voi, dicono. Noi rispondiamo un perché no di circostanza e per nulla convinto. Ci spiegano comunque la strada per raggiungere il casolare, poi Chiara suona la carica per la partenza. Insistono senza drammi particolari ancora un paio di volte per convincerci ad andare, salutano, nuova letale pressione di tette e spariscono nella notte gridando semmai ci becchiamo là.
Rimasti di nuovo soli, iomarcoematteo non abbiamo nemmeno bisogno di consultarci. Sappiamo benissimo che non andremo mai a quella festa. Non per inerzia, assenza di iniziativa o chissà cosa, ma perché non avrebbe senso. Conosciamo alla perfezione la psicologia della strappona tipo. Prima di tutto sappiamo che quell’accondiscendere bonario al nostro strusciarsi truffaldino non equivale per forza a un ci sto e te la do, nemmeno se seguito dall’invito a una festa. Non perché le strappone vogliano solo provocare o strusciarsi, tutt’altro: è anzi pressoché l’unica categoria femminile che senza problemi o pippe mentali arriva fino in fondo la sera stessa che ti ha conosciuto. Proprio per questo motivo, perché non vogliono troppi discorsi, perché si stancano nel girare troppo intorno alle cose e ad aspettare tempi eccessivi, è praticamente impossibile che nel contesto di una festa le strappone possano darla a gente come noi, che siamo di atmosfera più che d’assalto, di parola più che d’azione. La strappona tipo seleziona situazioni e circostanze, e non sceglie l’uomo migliore, ma il più adatto a quel particolare momento. L’ho provato io stesso sulla mia pelle l’estate scorsa, quando rimorchiai senza troppi problemi una strappona da urlo che pareva uscita da un film di Verdone, amica di Chiara tra l’altro, bionda ossigenata, stivali bianchi e minigonna ascellare. Ma quella sera eravamo in riva al lago a schitarrare Battisti e altri pezzi nostalgici, praticamente il mio habitat naturale.
Ad ogni modo iomarcoematteo a mezzanotte e mezzo ci ritroviamo ancora soli senza un cazzo da fare, per di più irrimediabilmente arrapati dalla fugace apparizione delle strappone.
“Andiamo alle Quattro Buche?”, dice Marco sospirando e scuotendo la testa.
È il segno della resa. Le Quattro Buche è un localaccio sulla statale a quindici chilometri da Ponte Rabbione dove fanno il tagliere di affettati, torta al testo e crostini misti migliore del mondo. Di solito ci rifugiamo lì a strafogarci di salumi innaffiati col vino rosso più forte del circondario per dimenticare crisi esistenziali, depressioni e soprattutto frustrazioni sessuali.
Sia io che Matteo, sconfitti, accettiamo la proposta di Marco, e tutti e tre ci incamminiamo mogi e a testa bassa in macchina. Guida Matteo e nessuno parla. Tuttavia siamo tre molle in tensione, ubriachi e sovreccitati, la classica situazione in cui basta niente per fare scattare il delirio.
Così è infatti. “Dite pure che è brutta…ma io Gessica me la scoperei in tutti i versi…”. Bastano queste poche e inequivocabili parole di Marco per farci andare definitivamente fuori di testa. Tempo tre secondi e la macchina si trasforma in un confuso accavallarsi di voci a volume sempre più alto, un guazzabuglio di commenti truci senza alcuna successione logica:
Ma che culo c’ha Sonia? Prima o poi glie lo stacco e me lo metto sul comodino…
Ora tu immaginati un pompino di Gessica…come minimo te lo strappa via di netto…
È impossibile scopare Chiara, ti scopa lei e ti manda in rianimazione…
Sonia è così fica che la prenderei a calci…
E la brunetta come cazzo si chiama? Zitta zitta ma secondo me pure lei fa certi numeri…
A macchina ferma davanti alle Quattro Buche nemmeno riusciamo a scendere, impegnati come siamo a urlarci addosso le presunte virtù da film porno delle strappone.
“Basta! Andiamo al Furia!”, dice Matteo.
Un silenzio assurdo scende improvvisamente tra noi. L’ha detto, Matteo l’ha detto veramente. Sono sicuro che negli ultimi cinque minuti ci abbiamo pensato tutti quanti almeno tre volte, ma lui l’ha detto, l’ha palesato. Quasi non ci credo. Per un attimo vorrei essere già dentro le Quattro Buche con la bocca unta di salame e il grasso del prosciutto tra i denti a soffocare rutti pestilenziali, ma so che non è possibile, so che a questo punto difficilmente torneremo indietro.
Abbiamo bevuto troppo e siamo stati troppo addosso alle strappone per essere in grado di pensare cose anche solo vagamente intelligenti. Per cui andremo al Furia, un locale terribile sepolto tra i capannoni di una terra di nessuno a pochi chilometri da qui, dove ragazze nude, giovanissime e lisce come la seta si esibiscono in improbabili lap dance e per cinquanta euro ti chiudono dentro uno stanzino e ti si strusciano addosso per dieci minuti.
Iomarcoematteo siamo già stati al Furia. Quel posto da capolinea dell’umanità è quasi una tappa fissa per gli addii al celibato. Per gli addii al celibato appunto, quando tutto è concesso, quando anche la cazzata più madornale viene catalogata come goliardata innocente e necessaria. Ma stasera è diverso. Stasera è un qualunque sabato di novembre, e noi stiamo andando a dilapidare tre stipendi per sentirci addosso il culo di una qualsiasi diciannovenne moldava. Tra poco non saremo più iomarcoematteo e ci trasformeremo in allupati della notte, segaioli sfigati, tristi come mignottari di provincia ultracinquantenni strafatti di viagra.
Ma non siamo in grado di rendercene conto. Urliamo un sì corale terrificante e Matteo mette in moto e parte sgommando come un fulminato.
Per chi non c’è abituato il Furia non è così facile da trovare, e dopo aver girato a vuoto mezzora abbondante alla ricerca di un bancomat per Marco, ci perdiamo altre tre volte. Quando arriviamo davanti all’insegna rosa lampeggiante del locale sono già le due. Il parcheggio è praticamente pieno, segno che almeno altre ottanta persone dei dintorni hanno i nostri stessi problemi.
L’ingresso costa venti euro, consumazione obbligatoria, casomai ci si abbassasse disgraziatamente la sbronza. Appena entrati ci passa la spavalderia. Di colpo timidi ci seppelliamo nell’unico divanetto vuoto, il più lontano dai pali della lap dance dove in questo momento si stanno esibendo tre ragazze. Per niente belle e soprattutto tristi. Tristissime. Altre ragazze sostano al bancone delle consumazioni, altre girano tra i divanetti cercando di invogliare i clienti a seguirle, altre ancora riemergono dal corridoio delle stanze dove si tengono i famosi spettacoli privati. Uno speaker truce commenta le esibizioni delle ragazze al palo e invita i clienti a darsi da fare con parole irripetibili.
Andiamocene via, penso, e so che in questo momento lo stanno pensando anche gli altri. Andiamocene via e fanculo i venti euro, siamo ancora in tempo a tornare alle Quattro Buche a sfondarci lo stomaco. Ma nessuno ha quello scatto di coraggio o quel barlume di lucidità per dirlo ad alta voce.
“Ste ragazze fanno un po’ cacare…”, dice Matteo.
L’ha presa un po’ alla larga, ma può essere un inizio, un preambolo alla fuga che tutti stiamo desiderando. Così non è, perché subito dopo viene a farci visita nel nostro divanetto una stangona di un metro e ottanta che brutta non lo è per niente, anzi. Si siede sopra Matteo muovendosi con maestria, e lui ovviamente va subito fuori di testa. Marco si alza per prendere da bere e poco dopo mi alzo anch’io, iniziando a girellare a vuoto per il locale, stordito dalle luci stroboscopiche, dall’abbondanza di pelle femminile nuda e da tutto il rum tracannato da inizio serata.
Non succede niente, nessuna ragazza mi si avvicina. Considerato che il loro lavoro è abbordare maschi in maniera indiscriminata comincio a sentirmi leggermente umiliato. Non vedo più Matteo, forse ha ceduto alle moine della stangona e l’ha seguita in una stanza, mentre Marco è fisso al bancone del bar a consumare drink a ripetizione. Andrà a finire che vomiterà, il che equivale a dire che prima delle sei non saremo mai a casa. Considerato che in questo momento non desidererei altro che sparire sotto le coperte e dormire una settimana abbondante, sconforto e umiliazione iniziano a trasformarsi in incazzatura.
Finalmente mi abborda una ragazza, rialzando la mia autostima attualmente ai minimi storici.
“Facciamo privé?”, dice arruffandomi i capelli, sensuale come potrebbe essere una zia con il nipote, una padrona con il suo gatto. Non mi piace. Ci scambio appena un paio di battute prima di liquidarla con gentilezza.
Segue una seconda ragazza, poi una terza. Niente da fare, mi fanno tutte lo stesso effetto. L’eccitazione di qualche ora prima è andata definitivamente in esilio. Controllo l’orologio, sono già le tre e mezza. Il tempo passa in fretta al Furia. Lo speaker truce urla che tra mezzora chiudono, quindi ci invita a caricare le pile per l’ultimo assalto. Io non carico un bel niente. Penso con sollievo alla chiusura del locale, al fatto che ho salvato il mio portafogli da una debacle ingloriosa. In fondo ho soltanto passato una nottata a girellare a vuoto in un posto squallido. E viste le premesse, il bilancio è positivo. C’è di peggio nella vita.
Sto per uscire e aspettare nel parcheggio i due amici tuttora dispersi quando lei mi afferra la mano. Bastano uno sguardo e un sorriso per rapirmi. Non è l’eccitazione tornata di colpo, né il fatto che lei sia mezza nuda davanti a me. Tra l’altro non è nemmeno bella, ce ne sono almeno venti di ragazze più belle di lei sparse per la sala. Ma lei è diversa da tutte le altre, per come si muove, per come sorride, per come parla, perché non ha addosso quel profumo nauseante d’olio per la pelle. E poi i suoi occhi neri, nerissimi, profondi come pozzi, selvatici e primitivi.
Si chiama Nadia, ha ventitre anni e viene dall’Ungheria. Davanti a questa apparizione miracolosa tutti i miei pensieri di poco prima si dissolvono. Seguirla è inevitabile. Sgancio cinquanta euro a una improbabile maitresse senza battere ciglio e mi lascio portare nel famigerato stanzino del privé. Lì dentro le luci sono basse e soffuse, gelatinate di rosa come la fotografia di un film soft core. L’odore di chiuso si mescola al solito fortissimo profumo d’olio, ma non ci faccio caso. Non sono eccitato, sono sedotto, stregato da chissà quale sortilegio nascosto nelle sue movenze da gatta.
Nadia accenna un paio di passi di danza, mi mette le mani attorno al collo e mi spinge dolcemente contro il muro. Agita il bacino contro il mio, guida le mie mani sulle sue gambe lunghe e nude. Ma io mi sposto e scivolo a sedere.
“Non sembri il tipo che frequenta questi posti”, dice Nadia massaggiandomi il petto.
Infatti non lo sono, ma stasera è andata così. Però non voglio parlare di vuoto, di solitudine e di tutto quello che mi ha portato qui. Voglio parlare di lei e voglio sapere tutto. Allora inizio a chiederle dove vive, con chi vive, da quanto tempo è in Italia, perché fa questo lavoro, quali nostalgie sente quando pensa all’Ungheria, quali malinconie le invadono gli occhi la mattina presto o la sera tardi quando non lavora.
Lei risponde, sorride, ogni tanto prova a iniziare lo show per cui l’ho pagata, ma ogni volta la fermo con una nuova domanda. Nadia allora ricomincia a parlare, limitandosi ad accarezzarmi e a stringermisi addosso.
Dieci minuti passano presto. L’improbabile maitresse entra nello stanzino per annunciarci che il tempo è scaduto. Nadia si stringe sulle spalle, mi guarda come per dire che non è colpa sua se non abbiamo fatto niente. Non penso nemmeno un secondo al fatto che ho speso cinquanta euro per frugare nella vita di una spogliarellista senza nemmeno sfiorarla. Penso solo a spenderne altri cinquanta per stare con lei altri dieci minuti.
La maitresse incassa senza commenti e senza espressioni. Nadia ed io siamo di nuovo soli. Forse per ricompensarmi di tanta generosità si lancia subito all’assalto, determinata stavolta a non sprecare nemmeno un secondo. Ma io la fermo di nuovo. Lei non capisce e chiede: “Ma cos’hai? C’è qualcosa che non va?”.
Lo dice senza ironia, senza esasperazione, ma con una preoccupazione che mi sembra sincera. E sarà questa sincerità, questo inatteso interessarsi ai miei disastri interiori, sarà questo suo sguardo da cui non riesco a staccarmi, sarà che ho bevuto troppo, io scoppio a piangere all’istante.
Eccomi qua allora, trent’anni e cento euro spesi per finire in lacrime come un infante tra le braccia di una puttana ungherese, più o meno alle quattro d’un sabato notte a Ponte Rabbione dove non c’è mai un cazzo da fare.
Dovrei farmi pena da solo, vergognarmi, scappare via, andare a casa a piedi, suicidarmi oppure entrare immediatamente in analisi. Invece resto lì, avvinghiato a Nadia, col viso sepolto nel suo grembo nudo a farmi coccolare e consolare. Lei è dolcissima e mi stringe forte riempiendomi di baci tra i capelli. E io, protetto e rassicurato come forse mai in vita mia, di colpo capisco secoli e secoli di poesie e canzoni e film e romanzi dedicati a prostitute e affini. Vivamus atque amemus, mea Lesbia, e via del Campo c’è una puttana, gli occhi grandi color di foglia e poi ancora quando sei qui con me questa stanza non ha più pareti e il culo della Gradisca e i capelli di Vassilissa. È che siamo cresciuti sommersi e schiacciati da troppe mamme, mamma mia, mamma tua, mamma televisione, mamma patria, mamma madonna, così tante che a conti fatti una vera non ce l’abbiamo mai avuta. E finiamo così, mai uomini, ma eterni bambini spauriti e bisognosi d’affetto, a reclamare carezze rifugiati tra i seni di donne a pagamento che ci offrono conforto e comprensione senza chiedere in cambio alcun perché.
Quando scade nuovamente il tempo io sarei pure disposto a pagare altri cinquanta euro, ma il Furia sta chiudendo e bisogna uscire. Salutare Nadia è già uno strazio. Vorrei portarmela via e piangerle addosso almeno per un’altra settimana. Mi sembra che nemmeno lei voglia lasciarmi. Ma non è solo una mia impressione, infatti mi dice: “Mi aspetti fuori?”.
Esco dal locale e in mezzo al parcheggio ritrovo Marco e Matteo. Chissà cos’hanno combinato in queste due ore. In questo momento ridono e scherzano con due ragazze del Furia, me le presentano ma dimentico subito i loro nomi, perché nessuna delle due è Nadia, nessuna delle due ha quegli occhi neri e quello sguardo selvatico. Marco e Matteo mi propongono di andare a fare un giro con queste due tipe. Non faccio nemmeno in tempo a parlare che Nadia compare alle mie spalle, abbracciandomi come fosse la mia ragazza. Segue una breve discussione. Nemmeno cinque minuti e ci ritroviamo tutti e sei stipati in macchina di Matteo. La destinazione è ignota ma non importa, quel che conta è che Nadia sia ancora qui con me.
Ci fermiamo in riva al lago, scendiamo, Matteo alza al massimo il volume dell’autoradio e Nadia e le altre due iniziano a ballare. Marco ha un colorito tra il bianco lenzuolo e il verde bottiglia, e come previsto qualche ora prima si allontana per vomitare. Nadia e le altre due invitano me e Matteo a ballare con loro. Io resto impalato, mentre Matteo si lascia andare, le tocca e si fa toccare. Nadia mi si abbandona addosso, mi stringe, mi accarezza e finalmente ci baciamo, un bacio vero, lungo e appassionato.
Dopo qualche minuto una delle altre due strilla: “Andiamo tutti a casa mia!”.
Non so come funziona in questi casi, se le ragazze del Furia sono abituate a chiudere così le serate, a portarsi a casa i clienti che gli vanno più a genio. Non so se bisognerà pagarle. Ma non mi faccio nessuna domanda, sono con Nadia e questo mi basta.
Siamo a casa di questa ragazza in un quarto d’ora. Appena arrivati Marco, ridotto a cadavere ambulante, crolla sul divano della sala e si addormenta. Una delle altre due apre con cura un pacchetto, rovescia il contenuto sul tavolo e con una carta telefonica internazionale prepara cinque piste di cocaina.
Mai presa coca in vita mia, e non ho intenzione di cominciare adesso. Così, per risparmiarle il lavoro, dico subito: “Per me no, grazie.”
“Che bravo ragazzo!”, commenta lei con sarcasmo. La odio con tutto me stesso.
Anche Matteo declina l’offerta. Nadia invece arrotola una banconota da cento euro, si china e con un’unica tirata spazza via tutta la quantità a sua disposizione. Le altre due la seguono all’istante, poi raccolgono i pochi granelli rimasti con l’indice che leccano con avidità.
Ridono come tre matte, un’allegria feroce e rumorosa da cui Matteo e io restiamo ovviamente esclusi. In fondo è così che vanno sempre le cose. Che tu sia ubriaco, fatto di fumo o cocaina o di qualsiasi altra merda possibile finisci sempre per costruire un mondo esclusivo per te stesso e per gli altri stonati, inaccessibile per chiunque non abbia in corpo le stesse quantità di stupefacenti.
Sono a disagio e infastidito. Matteo invece no, si butta tranquillo e allegro in mezzo alle ragazze, scherza, le bacia, le tocca. Cosa faranno adesso, un’orgia? Mi accendo una sigaretta e quasi invidio il sonno ubriaco e immemore di Marco.
Non so quanto tempo me ne sto in disparte a fumare sigarette, depresso e angosciato. Alla fine Nadia si accorge di me e forse impietosita, forse ricordando il mio pianto, mi raggiunge nel cantuccio solitario dove mi sono rintanato. Non dice una parola, mi prende per mano sollevandomi da terra e mi porta in un’altra stanza.
È una camera da letto, ma probabilmente non la usa nessuno visto il forte odore di chiuso che aleggia. Ci baciamo a lungo in piedi contro il muro, poi Nadia scende con le mani fino a slacciarmi i pantaloni. Non riesco a eccitarmi ma Nadia non si scoraggia, si sdraia sul letto e mi invita a seguirla. Ci baciamo ancora muovendoci uno sull’altra. Ma non ce la faccio, non ce la posso proprio fare. È che vorrei essere da un’altra parte, senza le risate spaventose degli altri che vengono dall’altra stanza, senza cocaina sparsa sul tavolo, senza quest’odore atroce di chiuso. Vorrei essere solo con Nadia e i suoi occhi.
Improvvisamente mi stacco da lei e mi metto a sedere sul letto. Mi riabbottono pantaloni e camicia.
“Che fai?”, mi chiede sinceramente smarrita.
Non rispondo. Scuoto la testa e mi accendo un’altra sigaretta.
“Perché non vuoi fare l’amore con me?”, chiede ancora.
“Perché ti amo.”
Mi alzo in piedi e senza guardarla esco dalla stanza, attraverso la sala dove non c’è più nessuno tranne Marco che russa, sbatto la porta con forza alle mie spalle e mi ritrovo finalmente solo nel silenzio del mattino che sorge.

Riccardo Lestini, tutti i diritti riservati

Per il Racconto del mese abbiamo già pubblicato: 

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