giovedì 31 luglio 2014

YVONNE VA IN RIVIERA (racconto di luglio)

RACCONTO DI LUGLIO


Ogni ultimo giorno del mese, qui su IL LESTO pubblichiamo un racconto, un lestoscritto più o meno inedito. 
Si parte, in questo per nulla caldo 31 luglio, con una "storia minima", breve breve. 
Speriamo vi piaccia, aficionados. 


YVONNE VA IN RIVIERA

Yvonne non è bella e lo sa. O almeno non ha addosso la bellezza che vorrebbe. 
Vive in un paesino minuscolo vicino Dresda e sa benissimo cosa cercano i maschi italiani nelle ragazze tedesche in vacanza, lo sapeva prima ancora di prendere l’aereo e mettere piede in riviera, in quella minuscola striscia di spiaggia sabbiosa tra Rimini e Bellaria.

Yvonne non ha gli occhi azzurri e non ha i capelli biondi, non ha quelle gambe lunghe che gli sguardi dei rivieraschi inseguono sorseggiando birre e campari, non ha quei visi alti e fieri che incrociano il cielo e fanno il solletico alle nuvole. Yvonne ha capelli sottili e castani, occhi scuri, fianchi troppo larghi e troppa carne nelle cosce. È timida Yvonne, non sa ammiccare, imprigionare desideri antichissimi con lo sguardo, esibire arcaici poteri matriarcali in elementari danze di corteggiamento. Conosce l’italiano ma non sa nulla del linguaggio del corpo. Eppure vorrebbe l’amore, vorrebbe un uomo che la ascoltasse, un uomo cui raccontare gli inverni tristi di Dresda, la sua infanzia in bianco e nero nel crepuscolo della Germania Est. Cose che non interessano nessuno insomma, tanto meno gli uomini italiani ad agosto in riviera. 
E allora, se non proprio l’amore, vorrebbe almeno una storia estiva da riportarsi a casa a settembre, una notte di sospiri con cui riscaldare le domeniche d’inverno, una gonna colma di desideri impauriti e frementi da stirare con rimpianto.

Ma nessun uomo l’ha mai avvicinata nelle lunghe notti di quelle estati gonfie e traboccanti di passioni, nessun uomo le ha chiesto di riaccompagnarla, di seguirla in spiaggia o in macchina. Mai, dai primi anni trascorsi in riviera, quando aveva appena diciott’anni e veniva con la madre, fino ad ora, che di anni ne ha venticinque e da sola prende l’aereo e prenota la pensione e l’ombrellone.

Però, per motivi che nemmeno lei sa spiegare a se stessa, Yvonne ha amato da subito l’Italia, e da subito ha preso a vagheggiare di venirci a vivere prima o poi, proprio lì, in quella minuscola striscia di terra tra Rimini e Bellaria, così diversa dalla neve del suo paesino a venticinque chilometri da Dresda. Per questo ancora torna ogni anno, ad agosto, nella stessa pensione di sempre.

E poi c’è quel gruppo di ragazzi e ragazze, quelli che organizzano le feste sulla spiaggia, i falò, le grigliate, le serate a tema. Quelli con cui da un paio d’anni ha l’illusione di ritrovarsi, anche se in fondo nessuno l’aspetta.

E infine Davide, il più bello di tutta quella chiassosa compagnia, il più bello e, fra tutti, l’unico che in due anni non le ha mai rivolto parola. Il più bello, d’inverno laureando in scienze farmaceutiche e d’estate dj e animatore delle notti in spiaggia tra Rimini e Bellaria. Il più bello, eletto da Yvonne, senz’altra ragione se non il colore olivastro della pelle, grande amore della sua vita.

Quest’estate Yvonne stava per dichiararsi. Una cena, tutta la compagnia stipata nel retro di una pizzeria sul mare, l’addio all’estate già presente nel vento fresco del nord. Ma le sue labbra avevano tremato e aspettato troppo, i battiti del cuore avevano fatto troppo rumore e ogni possibile parola le era morta in bocca. 
“Ciao, all’anno prossimo…”, le aveva detto Davide distratto, senza guardarla negli occhi, senza un abbraccio, senza nemmeno il bacio di rito sulla guancia.
Ciao, all’anno prossimo.
Quelle parole tracciavano una distanza immensa, un’eternità in cui convivere con un non detto insopportabile.

Yvonne non se lo sarebbe mai perdonato. Perché per lei non era colpa della scostanza di Davide, della sua superficialità, della sua disattenzione alle persone e al mondo, del suo arrogante egoismo. La colpa era solo sua, di Yvonne, della sua timidezza, della sua mancanza di fascino, della sua incapacità di vivere.

Così per saldare i conti con se stessa Yvonne, appena tornata in Germania, prenota subito un volo per l’Italia. Non per il prossimo agosto, ma per ottobre, al primo week end lungo che il lavoro le concede. Yvonne arriva in riviera un piovoso venerdì pomeriggio di ottobre, nemmeno un mese e mezzo dopo quella cena disastrosa. 
La riviera d’autunno è un altro mondo. Le pensioni sono semivuote, le strade sgombre, ai chioschi lungomare sostano gruppi sparuti e infreddoliti, smaniosi di saltare il prima possibile su una macchina che li porti nell’entroterra. 
Per l’immagine estiva, chiassosa e divertita che ha dell’Italia, Yvonne potrebbe rimanerci male, riconsiderare davanti a quello scenario desolato i suoi progetti di trasferimento. Ma non ha tempo per le delusioni. Dal decollo all’aeroporto di Dresda il cuore le esplode nel petto così forte che sembra scoppiare: non è per la bellezza dell’Italia che è ripartita, ma per Davide, per dirgli a ottobre quel che non ha avuto il coraggio di dirgli in agosto.

Ma venerdì Davide non lo vede, così come non vede nessuno della sua compagnia. Aspetta sola sorseggiando prosecco al solito chiosco lungomare per ore, nella speranza di veder apparire qualcuno. Alle undici si decide a telefonare a Federica, la ragazza del gruppo con cui è più in confidenza. Viene a sapere che non arriverà nessuno. Sono tutti a cena, e poi a una festa, a quaranta chilometri da lì, e Yvonne non ha la macchina per raggiungerli. Si vedranno il giorno dopo.

Yvonne non si dispera, sa aspettare e sa gustare il sapore dell’attesa. L’ha imparato da bambina, quando tutto era razionato, dal cibo ai regali, e ogni piccola cosa era una conquista al termine di un’attesa paziente e silenziosa. In più si sogna meglio, ad aspettare. E Yvonne sogna tutta la notte, immagini confuse di neve, di Nonno Inverno che arriva dal camino, di cartoline colorate dei parenti dell’Ovest, di Davide che entra dalla finestra per scioglierle i capelli.

Poi arriva sabato sera finalmente, lo stesso chiosco lungomare, la stessa attesa torturandosi le mani, lo stesso prosecco tra le mani, gli stessi gruppetti di persone smaniosi di andarsene via. C’è solo più vento e fa più freddo. I ragazzi del gruppo arrivano verso le dieci e mezzo. Prima Federica, poi via via tutti gli altri. Davide è uno degli ultimi ad arrivare. Yvonne ha un tuffo al cuore nel vederlo, e quasi non ce la fa a salutarlo. Poi però raccoglie tutte le sue forze, ha poche ore a disposizione e non vuole sprecarle un’altra volta.

“Davide scusami, ma avrei bisogno di parlarti”, gli dice tutto d’un fiato, in apnea, senza nemmeno pensare che in due anni è la prima volta che riesce a dirgli più di tre parole consecutive.

Lui all’inizio la scruta, getta un occhio alla gonna appena sopra il ginocchio che indossa. Poi volta subito lo sguardo, e finendo d’un sorso il suo cocktail risponde: “Mi dispiace, adesso devo andare…me lo dici un’altra volta”. 
Parla tranquillo Davide, senza tentennamenti, non un’increspatura nella voce.
Prima di rimanere di ghiaccio e sconfitta, Yvonne ha ancora addosso una frase disperata da spendere: “Ti prego, è importante…solo dieci minuti, poi io domani parto”.
“Me lo dirai quando torni allora, ok?”

E così Davide sparisce, senza altre parole, dandole le spalle e incamminandosi verso il parcheggio con altri due amici. Yvonne vorrebbe piangere e gridare, il dolore che sente è simile a uno strappo violento proprio al centro della pancia. Odia se stessa e un po’ finalmente inizia a odiare anche lui. Qualche lacrima affiora silenziosa, Federica le chiede se va tutto bene, lei risponde di sì, di non preoccuparsi, e scansandola delicatamente con la mano se ne va da sola verso la spiaggia. Nemmeno il tempo di riprendersi che quando torna al chiosco sono tutti spariti, senza dirle niente, senza nemmeno avvertirla.

Sola come non mai in vita sua, Yvonne inizia a bere un drink dopo l’altro, gettando ancora, ogni tanto, uno sguardo verso la strada, sperando che qualcuno si ricordi di lei e venga a prenderla. Ma non arriva nessuno finché, alle undici passate, non compare al chiosco Tommy, un tipetto scaruffato che ogni tanto ha visto assieme al resto della banda.

“Ma sono andati tutti via?”, chiede Tommy. 
Yvonne si guarda intorno stupita, quasi incredula che lui l’abbia chiesto proprio a lei, che qualcuno si sia accorto della sua esistenza. 
Alla fine fa un cenno affermativo col capo. 
“Stronzi”, esclama Tommy, “stronzi che manco rispondono al telefono…mica sai dove andavano?”. 
No, Yvonne non lo sa, e anche se lo sapesse non potrebbe raggiungerli.

Tommy bestemmia qualche istante tra i denti, poi prende da bere e offre un bicchiere anche a Yvonne. Lei, già ubriaca, accetta volentieri.

Nel freddo di quel sabato sera lungomare attaccano a parlare.
Tommy non le piace e non vuole piacergli, così parole e discorsi le vengono naturali e continui, senza problemi e senza imbarazzi. Sbronza com’è, dopo un po’ parla senza freni e racconta a Tommy, a questo semi sconosciuto dall’aria sciatta e trasandata, pezzi della sua vita, Dresda, la Germania, il suo primo amore, la passione per il mare e per la riviera. La sua passione per l’Italia.

È tardi e fa freddo, così Tommy le propone di continuare a parlare in macchina. Yvonne accetta senza problemi. Fanno un giro, si allontanano dal mare, divorano chilometri d’entroterra per poi fermarsi in una piazzola d’una qualche ignota periferia. Parlano ormai da più di due ore quando in un momento di silenzio la mano di Tommy, apparentemente a caso e senza intenzione, si posa sul ginocchio di Yvonne. Il silenzio continua, la mano resta lì e Yvonne ha un sussulto alla pancia. Forse Tommy aspetta una sua reazione, forse lei dovrebbe fare qualcosa, ma non sa bene cosa. È confusa, Tommy non le piace ma forse non importa, aspettava quella mano, quella mano qualsiasi, da troppi anni, e forse dovrebbe lasciarsi andare. In fondo potrebbe essere bello e dolce, pensa Yvonne. Così risponde carezzando Tommy sul viso, e lui allora le stringe il ginocchio con forza e la sua mano s’infila tra le pieghe della gonna, su fino alle cosce. Con il braccio rimasto libero le cinge le spalle e la bacia sul collo con foga crescente, spingendola verso il finestrino. No, non è esattamente la dolcezza che aveva in mente Yvonne. Vorrebbe chiudere gli occhi, ma non ci riesce schiacciata come si trova tra il gelo del finestrino e il viso di Tommy. Guarda fuori e non c’è il mare, non c’è la spiaggia, non c’è la musica che arriva dai jukebox, ma solo il buio d’una periferia che non conosce, solo i bagliori improvvisi delle poche macchine che attraversano la statale.

Forse è così che funziona e chissenefrega dei miei romanticismi da fotoromanzo, pensa ancora Yvonne. Non è passione o voglia, ma è rabbia, rabbia pura quella sensazione impetuosa che le monta allo stomaco in quel momento. Ed è con rabbia cieca e improvvisa che risponde a quei baci sgraziati, con rabbia che gli stringe il viso tra le mani, con rabbia che gli sbottona i pantaloni e prende il suo sesso tra le mani, con rabbia che si strappa via le calze. Proprio lei, Yvonne, che in vita sua ha avuto solo un uomo, il fidanzato del liceo a cui si concedeva senza guardarlo negli occhi, nella mansarda fredda e vuota dei suoi genitori tra lenzuola sempre profumate di lavanda, adesso stringe tra le mani il sesso di un ragazzo brutto e senza fascino che non conosce, in equilibrio precario dentro una macchina minuscola, a migliaia di chilometri da casa, nel buio d’una statale. Lo guida dentro di lei con la stessa rabbia, come fosse una vendetta. Non sa se vendetta contro Davide, contro se stessa o contro sua madre, rimasta incinta a diciott’anni di un uomo che l’ha abbandonata , sua madre che l’ha cresciuta come se la vita fosse un gigantesco senso di colpa, come se gli uomini fossero le creature più spregevoli della terra. Sente dolore, ma non importa, è dolore misto a piacere senza forma. E soprattutto ha deciso di vendicarsi e non si fermerà.

Tutto quanto finisce relativamente presto. Tommy la riaccompagna alla pensione, si salutano in fretta e lui promette che la chiamerà. Non lo farà, ma non importa, non importa davvero. Aveva solo bisogno di sentirsi sporca, tutto qui. A sentirsi stupida e sbagliata avrà tempo nei giorni che verranno, quando il telefono resterà muto e la casella mail vuota.

Si sveglia la mattina dopo con la testa che gira vorticosamente per i postumi della sbronza. Le fanno male le gambe e sotto si sente bruciare. Paga in fretta la pensione e si fionda nell’autobus per l’aeroporto. Dopo il check in prende un analgesico e nausea e mal di testa piano piano iniziano a svanire.

Prende posto in aereo, e in attesa del decollo le prende un’improvvisa e gigantesca voglia di casa. Voglia di neve e ghiaccio, delle doppie finestre, del vento gelido di Danzica che per giungere fino a lei compie un tragitto tortuoso e implacabile.
S’addormenta tra questi pensieri confusi.

Al risveglio è a Dresda. 

Riccardo Lestini - all rights reserved

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1 commento:

  1. Un'altra bella storia di donna e di quel desiderio di sentirsi sporchi che tutti abbiamo e a cui rinunciamo troppo spesso. Grazie Richi.

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