I SEGRETI DI JIM
(tutta la verità su Jim Morrison)
Per leggere le puntate precedenti:
Prima puntata
SECONDA PUNTATA
IL PRIMO MORRISON
Partire dai testi quindi, e dal particolare
contesto in cui nacquero e si consacrarono, per comprendere appieno
Morrison.
La breve vita del Re Lucertola fu un continuo e
frenetico passaggio da una situazione all’altra, un’incessante
mutazione di pelle, una quantità continua di attività parallele, di
nuovi progetti. Unica costante di tutta la sua vita, dall’adolescenza
alla morte prematura, fu la scrittura. Per questo, approcciandoci in
qualsiasi modo a Jim Morrison, occorre premettere questa necessaria
considerazione: che il frontman dei Doors fu, prima di tutto, uno
scrittore.
I testi con cui contribuì a rendere immortali le
canzoni dei Doors sono, senza dubbio, letteratura. Pur non essendo
separabili dalla musica, pur non essendo (se non in casi particolari)
poesie trasformate in musica, pur essendo nate nella testa
dell’autore come canzoni, esse hanno una complessità, una
levatura, un intricato filo di rimandi e suggestioni che non le rende
paragonabili a nessun altro prodotto del rock anglosassone (fatta
eccezione, ovviamente, per Bob Dylan e per il primo Lou Reed).
Morrison era nato poeta, sin da giovanissimo
riempiva quaderni di versi ispirandosi, come lui stesso avrebbe
ricordato, ai poeti beat che più amava: Ginsberg, Corso,
Ferlinghetti. Di loro imitò lo stile, le ossessioni, le atmosfere.
Poi, un giorno, decise di dare tutti quegli scarabocchi liceali alle
fiamme. Era necessario liberarsene per elaborare uno stile poetico
proprio. Cominciò così a scrivere componimenti del tutto originali,
iniziando a dare forma a quelli che sarebbero diventati, nel corso
degli anni, i suoi registri più conosciuti e riconoscibili. Subì
poi l’irresistibile fascino del cinema e si iscrisse alla facoltà
di cinematografia dell’UCLA, coltivando il sogno di diventare un
regista alla Godard. Ancora all’inizio del 1965, la musica non era
lontanamente nei progetti dell’allora ventunenne James Douglas
Morrison.
Cosa successe allora? Come andò che un giovane
poeta beat esordiente, aspirante regista, diventasse la rockstar più
famosa degli Stati Uniti d’America? Per comprendere questo
passaggio fondamentale occorre prima di tutto capire cos’erano gli
Stati Uniti, e soprattutto cos’erano la California e Los Angeles in
quel decisivo e irripetibile 1965. La costa Pacifica ribolliva di
ribellione, la generazione che non aveva conosciuto la guerra era
ansiosa di lasciarsi alle spalle tutti i più obsoleti codici etici e
morali dei propri padri. I beat, sin dagli anni ’50, nell’America
cupa del maccartismo, avevano stuzzicato le coscienze più sensibili
propagandando rivolta, libertà, pacifismo, emancipazione sessuale.
Tutte cose che, nel pieno degli anni ’60, erano ormai pronte ad
essere recepite su larga scala. La tragedia del Vietnam era prossima
a esplodere in tutte le sue tinte più cruente, la rivoluzione del
’68 era dietro l’angolo: Los Angeles si accingeva a diventare la
capitale mondiale della contestazione. Beat, bohèmiens e hyppies si
erano pacificamente impadroniti della spiaggia di Venice, a Los
Angeles.
Morrison all’epoca viveva sul tetto di un
palazzo a due passi da Venice, dividendo le sue giornate tra le
lezioni all’UCLA e i vagabondaggi lungo quella spiaggia brulicante
di vita e di rinnovamento, bohèmien tra i bohèmiens. Viveva solo.
Da sempre insofferente a qualsiasi cosa rappresentasse l’autorità,
aveva già formalmente rotto i rapporti con la sua famiglia
d’origine. Il padre, un autoritario ufficiale della marina
dell’esercito americano, rappresentava in pieno quel potere
costituito cui Jim, già da tempo, aveva dichiarato guerra. I
genitori disapprovavano fermamente la sua scelta di studiare
cinematografia, limitandosi a mantenerlo con un magro assegno
mensile. Di lì a poco, Jim avrebbe smesso anche di sentirli,
cominciando a spargere la voce che fosse orfano. Per Morrison Los
Angeles e la California furono la tappa finale di un’infanzia e di
un’adolescenza trascorsa a spostarsi da un luogo all’altro
dell’America per via dei continui trasferimenti dovuti al lavoro
del padre. Nato a Melbourne, in Florida, era stato ad Albouquerque
nel New Mexico, a Washinghton D.C. e in moltissime altre città. A
L.A., trovò finalmente la sua dimensione ideale.
In quel terremoto rivoluzionario che stava per
esplodere definitivamente e che avrebbe trovato nel Pacific West la
sua patria elettiva, la musica giocò senz’altro il ruolo più
importante. Bob Dylan e Joan Baetz avevano appena rivoluzionato
l’idea stessa di canzone, con testi che non si esaurivano in
semplici e orecchiabili tormentoni d’amore, ma cantando la pace,
l’antimilitarismo, l’angoscia esistenziale, la voglia di
cambiamento. E dall’Inghilterra spiravano uragani. I Beatles
avevano spazzato via d’un colpo tutto il vecchio con un look
scioccante e creando veri e propri momenti di psicosi collettiva
durante i loro concerti, gli Stones si ponevano come il loro
controcanto sporco e maledetto.
Morrison non poteva restarne indifferente.
Suggestionato da Nietzsche e dagli studi sul carattere dionisiaco
della tragedia greca, era attratto dal caos, dal disordine, dalle
cerimonie di liberazione di coscienza collettiva, dalla manipolazione
delle masse. Il futuro Re Lucertola, affascinato dagli isterismi che
accompagnavano ogni spostamento dei Beatles, dagli Stones e in
particolare dal loro mefistofelico chitarrista Brian Jones, vide nel
rock l’equivalente novecentesco dei riti dionisiaci dell’antichità.
Fu così che iniziò a scrivere canzoni e a
coltivare l’idea di creare un gruppo rock. Sgombriamo subito il
campo da un equivoco: le canzoni dei Doors, in particolare quelle dei
primi album, non nacquero come poesie per poi essere successivamente
musicate, ma videro la luce già sotto forma di pezzi musicali.
Aiutato dai sempre più frequenti viaggi con LSD, Morrison, come lui
stesso ebbe a dichiarare in seguito, iniziò a sentire un vero e
proprio concerto in testa: era gran parte della musica che sarebbe
finita nei primi due dischi dei Doors. Jim non sapeva nulla di
musica, non possedeva i benché minimi rudimenti di grammatica
musicale, per cui, l’unico modo per fissare quelle stupefacenti
illuminazioni, oltre a fissarne i testi sulla carta, era quelle di
canticchiarne in continuazione la melodia.
Tuttavia i Doors non sarebbero mai nati se
Morrison non avesse incontrato, un giorno del 1965 sulla spiaggia di
Venice, Ray Manzareck, ottimo tastierista e compagno di corso di Jim
all’UCLA. Manzareck, che all’epoca suonava in una mediocre cover
band assieme ai fratelli, fu l’unico a credere in Morrison, a
intuire lo sterminato potenziale presente in quel giovane e
apparentemente sconclusionato poeta in erba. Sulla spiaggia di Venice
Morrison cantò a Manzareck alcune strofe di Moonlight drive e
di altre canzoni appena composte. Ray ne rimase sconvolto, e portò
Jim nella sua band. Gli altri componenti non capirono nulla dei testi
di Jim: la sua rozzezza musicale, la sua voce inizialmente timida e
incerta, priva di qualsiasi base, fece sì che uno dopo l’altro
abbandonarono il progetto. Ma Manzareck non si diede per vinto,
convinto fino allo stremo che prima o poi Morrison sarebbe esploso in
tutto il suo talento. A Ray e Jim si aggiunsero, subito dopo
l’abbandono degli altri, il chitarrista Robbie Krieger e il
batterista John Densmore. E nacquero i Doors. Il nome scelto da
Morrison per la band già ne identificava il carattere unico e, per
così dire, letterario: era un esplicito richiamo ad alcuni versi di
William Blake, uno dei poeti preferiti da Jim. “Quando le porte
della percezione saranno finalmente aperte, tutto finalmente apparirà
come realmente è: infinito”.
Le ventuno canzoni che compongono i primi due
album della band, The Doors e Strange Days, nacquero
tutte tra il 1965 e il 1966, nel corso delle interminabili sessioni
nella rudimentale sala prove in casa di Ray e durante le innumerevoli
esibizioni live nei piccoli club di Sunset Strip a Los Angeles. Il
novanta per cento di quel materiale, proveniva da quello psichedelico
concerto che suonava da anni nella testa di Morrison.
Spesso, in maniera superficiale e sbrigativa, si
tende a liquidare i testi di Morrison come oscuri, privi di logicità,
procedenti per illuminazioni singole e privi di un vero e proprio
collante. Eppure non è così. Come lo straordinario ultimo Rimbaud
delle Illuminations, anche la poesia di Morrison evoca e
rimanda a un mondo “altro”, “superiore”, fatto di richiami e
metafore che si inseguono, suggestioni che nascondono significati
reconditi e profondissimi. Per comprenderli, oltre ad aver ben chiaro
in testa il metodo di composizione di Morrison, che non era – per
capirci – logico e consequenziale come quello di Dylan, ma che al
contrario procedeva per analogie, giustapposizioni e corrispondenze
sinestetiche simile, appunto, a quello di Rimbaud, Celine o Mallarmé,
occorre anche tenere sempre ben presente (come per qualsiasi altro
poeta che si abbia la pretesa di studiare e comprendere) il contesto
storico in cui tali versi furono composti.
Una delle prime canzoni composte dalla band, che
poi sarà il brano d’apertura, del primo album, fu Break On
Through.
You know the day destroys the night
Night divides the day
Tried to run, tried to hide
Break on trhough to the other side…
“Lo sai che il giorno distrugge la notte, che la
notte divide il giorno….ho cercato di correre, ho cercato di
nascondermi….apri un varco dall’altra parte”.
Non è il miglior
testo di Morrison, ma è una sorta di fondamentale manifesto poetico.
La capacità sintetica e compressiva della poesia di Morrison appare
già qui in tutta la sua dirompente efficacia: il tempo oggettivo,
nell’immagine del giorno e della notte che si rincorrono
incessantemente, è una prigione angosciante. Tutto ciò che è
oggettivo, estetico, razionale, prestabilito, determinato, è
prigione. Il tempo è prigione. Se è necessario reinventare una nuova
società, allora occorre reinventare un altro tempo, un altro
linguaggio. Non serve a nulla fuggire e nascondersi, occorre “aprire
un varco dall’altra parte”, cioè allargare l’area della
coscienza, andare al di là dei confini stabiliti, non accontentarsi
del noto ed esplorare l’ignoto. In questi quattro versi, come a
questo punto è facilmente comprensibile, c’è tutta l’urgenza di
liberazione degli anni ’60.
Morrison era anche in grado di comporre
straordinarie elegie d’amore. L’eutanasia sentimentale di The
Crystal Ship, terza traccia del primo album, è senza dubbio uno
dei vertici poetici del primo Morrison: “Prima che tu scivoli
nell’incoscienza, vorrei avere un altro bacio/ Un’altra rapida
possibilità d’essere felice/ Un altro bacio….I giorni si
rincorrono pieni di dolore/ Chiudimi nella tua pioggia nobile/ Eri
troppo folle quando correvi/ Ma ci ricontreremo ancora”.
Deliver me from reasons why you dreader cry, i
dreader fly
“Salvami dalle ragioni per cui tu dovresti
piangere e io dovrei volare”.
Messaggi reconditi di liberazione, elegie d’amore.
Il terzo polo dello stile del primo Morrison era la rapida e
stupefacente successione di immagini evocative, che in pochi versi
riesce a creare atmosfere indimenticabili e travolgenti. In questo
senso, il risultato migliore è senz’altro la stupenda Soul
Kitchen, dedicata a Olivia, proprietaria del ristorante di Venice
dove Jim era solito consumare i suoi pasti:
“Lasciami dormire tutta la notte nella cucina
della tua anima/ Fammi scaldare la mente accanto alla tua graziosa
stufa/ Se mi scacci, bambina, vagabonderò barcollando in siepi
fluorescenti// Le tue dita intanto disegnano minareti/ Parlano un
alfabeto segreto/ Mi accendo un’altra sigaretta e imparo a
dimenticare”.
Versi come questi, sconosciuti a qualsiasi altra
rock band, destinati a rimanere un caso unico, venivano consacrati
dalle invenzioni musicali dei Doors in una strana, irripetibile,
fantasmagorica e ipnotizzante miscela: la tastiera penetrante di
Manzareck, gli assoli folk/jazz di Krieger e il tocco raffinato di
Densmore, amalgamandosi all’immaginario di Morrison, crearono la
leggenda dei Doors. I rari testi che non provenivano dalla penna di
Morrison, erano opera di Robbie Krieger. Suo è, ad esempio, il testo
del singolo più fortunato della loro fulgida carriera, Light My
Fire, destinato a renderli celebri nel giro di poche settimane.
In questi mesi esaltanti di prove prendeva
rapidamente forma tutto quanto l’immaginifico universo poetico di
Jim. Cosa chiedeva Morrison alla sua poesia e alla sua musica?
Chiedeva, come dichiarato in Break On Through, di “aprire un
varco”. Per farlo era necessario ritornare a un mondo arcaico,
primordiale e ancestrale, ricercare le origini dionisiache
dell’umanità, la più arcaica comunione mente-corpo, il più alto
e inarrestabile sregolamento di tutti i sensi. I suoi versi presero
così a popolarsi di immagini e simbologie che sarebbero ritornate
ossessivamente in tutte le sue composizioni più celebri e
sconvolgenti: il fuoco, il deserto, il serpente, la lucertola,
simboli di un primitivismo ormai perduto, di verità oscure da
ricercare e da riportare alla luce. Come Antonin Artaud, anche
Morrison voleva scandagliare l’animo umano in tutta la sua oscurità
e violenza per svelarne la verità.
Inoltre, il rock per Jim non fu mai successione di
canzoni. Il famoso concerto che si svolgeva nella sua testa non era
una semplice live performance, ma un vero e proprio rito teatrale,
erotico, dionisiaco e sciamanico.
Lo sciamano appunto. La storia che Morrison amava
più raccontare della sua infanzia era quella relativa all’incontro
sull’autostrada con un camion di indiani Navaho coinvolti in un
terribile incidente. A detta sua, l’anima del vecchio sciamano
sanguinante sarebbe balzata fuori dal corpo morente dell’anziano
entrando nel suo e impossessandosene per sempre. Un simbolo
ovviamente. Morrison, con la sua poesia, voleva essere lo sciamano
del rock, e come uno sciamano condurre i suoi ascoltatori in un
primordiale e rivelatore rito eleusino di rivelazione collettiva.
Fu unendo tutte queste istanze e tutte queste
suggestioni che Morrison diede forma ai suoi più immortali
capolavori, prima fra tutte l’epica e sconvolgente The end.
(continua…)
VENERDI PROSSIMO NON PERDERE LA TERZA PUNTATA DE
I SEGRETI DI JIM
"Uccidi il padre, scopa la madre"
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